domenica 27 gennaio 2013

2) Crescita, PIL e Domanda...come funziona?

Nel precedente intervento abbiamo visto il valore complessivo di tutte le componenti economiche che incidono sulla nostra economia. Ora bisogna capire come funziona il sistema economico in cui viviamo.

Il nostro sistema economico, per vari motivi storico-culturali comuni a molti altri paesi europei, è di stampo capitalistico ma con alcune "attenuazioni" rispetto a quello capitalistico più "puro" (rappresentato da UK e USA), ossia un maggiore intervento pubblico nell'economia e differenziazione marcata nella tassazione (d'ora in poi sistema "capitalistico-attenuato").
Come tutti i sistemi capitalistici però, è basato sulla domanda/consumo, sul debito e sull'apertura al commercio internazionale. L'ultima variabile in particolare è quella che distingue un sistema economico aperto da uno chiuso (pianificazione comunista).
Questi tre fattori si intrecciano l'uno con l'altro determinando una dinamica di sviluppo ma soprattutto favorendo aggiustamenti automatici in casi di squilibrio. Ecco, in estrema sintesi, alcuni dei possibili intrecci:

  • Caso "da manuale": la domanda dei cittadini per determinati prodotti fa aumentare la produzione industriale, che a sua volta genera maggiore reddito e maggiore occupazione (non solo in un paese); una volta che questa diminuisce o cambia "gusti", l'offerta industriale cala e di conseguenza il reddito e l'occupazione crollano creando crisi più o meno gravi, o più o meno settoriali (cioè non tutta l'economia ma solo il settore agro-alimentare per esempio);

  • Caso americano (fino alla crisi del 2009): la domanda dei cittadini è altissima (per motivi culturali) e costante negli anni, ma non bastando i soldi costoro si indebitano fino a livelli record, nel frattempo le imprese producono, l'occupazione aumenta e lo stesso vale per i servizi(*); una volta che l'indebitamento è troppo sproporzionato incominciano le prime difficoltà di pagamento da parte dei cittadini, quindi la domanda cala bruscamente, la produzione di beni e servizi la segue e la disoccupazione aumenta (blocco totale del sistema economico, se non ci fosse stato l'intervento pubblico);
    [(*) più l'economia avanza, più i beni e i servizi offerti si differenziano, per cui si passa da una predominanza dell'industria dell'acciaio ad un grande sviluppo delle società di consulenza finanziaria per esempio]

  • Caso tedesco: la domanda dei cittadini è bassa, ma la produzione industriale è molto sviluppata e di alto livello, il cambio intra-europeo è fisso (per maggiori dettagli visionare i post "Euro o non Euro?") e quindi le esportazioni nette (cioè il saldo positivo di esportazioni meno importazioni) riescono a compensare la mancata spinta della domanda/consumo, garantendo un ottimo livello di occupazione;

  • Caso italiano (pre-crisi): la domanda è tutto sommato a livelli normali (con una predominanza di pochi settori di spesa come l'alimentare), la produzione aumenta ma essendo quantitativamente più piccola e meno avanzata tecnologicamente non riesce ad assorbire al meglio (cioè in settori avanzati) i lavoratori disponibili, nel frattempo la spesa pubblica è mal indirizzata e il cambio fisso impedisce di aggiustare la competitività di prezzo;

  • Caso giapponese: la domanda è molto bassa, la produzione industriale si concentra sulle esportazioni di alto livello ma non compensa il basso livello di consumo interno, la disoccupazione è più o meno stabile e i Governi ricorrono all'indebitamento (più conveniente per via dei bassi tassi d'interesse) per favorire la crescita o comunque stabilizzare la situazione, nonché ad un basso tasso di cambio per non penalizzare le esportazioni (unica ancora di salvezza).


Tutti questi casi sono accomunati da un costante ripetersi di periodi positivi e periodi negativi, in un unico flusso economico conosciuto dagli economisti come ciclo economico: un'alternanza di recessione-ripresa-crescita-depressione che segue appunto un andamento ciclico più o meno contemporaneo tra i paesi occidentali (UE, UK, USA) e solo recentemente coinvolge anche gli Emergenti (seppur in modi diversi), che riflette l'alto grado di interscambio commerciale tipico della globalizzazione.
L'unico problema è che in caso di crisi di un certo livello, quasi tutti i paesi vengono colpiti poiché fortemente legati tra loro, per cui la fase di "caduta" (recessione) avviene con grande forza, creando grossi problemi ai Governi per via della difficoltà (a livello di tempi) di mettere in piedi politiche economiche atte ad evitare un acuirsi della recessione. Allo stesso modo la fase di boom viene spesso mal gestita, così invece di favorire uno sviluppo più graduale si lascia "correre" l'economia sfruttandone i benefici in termini di maggiori entrate pubbliche.
In casi come questo ci si aspetterebbe che i paesi più capitalistici e quindi meno propensi ad interventi statali nell'economia lascino il tempo al mercato di ritrovare l'equilibrio (secondo i liberisti, fautori del capitalismo puro, se si lascia il mercato libero di agire l'equilibrio verrà ripristinato in un tempo minore rispetto al caso di intervento), viceversa i paesi  a capitalismo-attenuato dovrebbero aumentare la spesa pubblica per compensare la diminuzione degli altri tre fattori determinati del PIL (Export, Investimenti, Domanda)...

INVECE NON E' COSI'!!!

Stati Uniti e Regno Unito hanno effettuato interventi di maggiore spesa pubblica (politica fiscale espansiva) e di bassissimi tassi e maggiore immissione di denaro nel sistema da parte delle rispettive Banche Centrali (politica monetaria espansiva), creando la c.d. "fine tuning" consigliata dall'economista Keynes, ossia che se lo Stato spende e la Banca Centrale tiene bassi i tassi o interviene sul mercato per immettere direttamente o indirettamente più soldi si avrà un effetto congiunto ampiamente positivo capace di rimettere in moto l'economia nel breve periodo (tranne in un caso di cui non parlerò).
Viceversa i paesi Euro hanno effettuati interventi di maggiore spesa pubblica sì, ma la BCE ha tenuto i tassi sostanzialmente alti ancora a crisi avanzata (abbassandoli solo con l'arrivo di Draghi) e ha effettuato interventi di supporto all'economia ridicoli in confronto anche solo alla Banca centrale inglese.

Ci siamo dimostrati più liberisti degli anglosassoni stessi, questo per via della costante predominanza della linea tedesca nell'esecutivo della BCE, ossia inflazione bassa uber alles. Per di più i vincoli posti alla spesa pubblica degli Stati Euro sono stati tali da non permettere alcuna eccezione, nonostante la gravità della crisi.

Non è la corruzione o il fatto che i politici usino auto blu per andare a fare la pupù che ha determinato la crisi in cui siamo o che determina le risposte della politica a tale problema, molto semplicemente siamo incastrati tra una pianificazione dall'alto (non immune da conflitti politici al suo interno) che impone determinati vincoli, e una richiesta dal basso (cittadini e imprese) che chiede una qualche misera soluzione o palliativo (anche perché in periodi di crescita o di recessione precedenti la situazione politica era pressoché la stessa, la spesa pubblica era gestita ancora peggio, ma nonostante tutto ce la cavavamo perché non avevamo vincoli così stringenti).









sabato 26 gennaio 2013

1) Crescita, PIL e Domanda...che succede?

In questi giorni sono cominciate a circolare le prime "contro-previsioni" sulle stime di crescita del PIL rispetto alla previsione del Governo (effettivamente spesso sovrastimata) per l'anno 2013, elaborata da Confindustria  (ma anche da FMI e altri organismi) che vedono l'anno corrente come un altro anno di contrazione (seppur lieve) del PIL.
Tutti sappiamo che siamo in crisi, abbiamo magari anche una vaga idea delle cause e degli sviluppi fino al 2012, ma molto probabilmente avremo un'idea decisamente troppo vaga sui valori fondamentali che caratterizzano il PIL stesso.

Grazie ad un efficace grafico del Sole24ore (questo è l'articolo) ci viene indicato un preciso valore percentuale degli elementi che ogni anno vanno a "formare" il nostro Prodotto Interno Lordo (cioè il valore della "ricchezza" economica di un paese in un anno).

Come si evince dall'articolo il PIL è il valore dei beni e servizi prodotti in un paese in un anno da operatori comunitari e non. E' composto sommariamente da quattro componenti primarie (dati 2011):

  • Consumi delle famiglie (60%)
  • Investimenti delle imprese (19%)
  • Spesa pubblica (20%)
  • Esportazioni "nette", cioè se le esportazioni sono maggiori delle importazioni (-1%, perché import è maggiore dell'export)


[Qui viene spiegato più dettagliatamente i vari modi per identificare il PIL]

Una piccola digressione: è vero che il PIL presenta una misurazione distorta e quasi paradossale per alcuni aspetti, perché tiene conto di valori puramente economici e non anche di altri fattori (come riporta l'articolo), però la storia (presa sempre dall'articolo) per cui "se un edificio viene distrutto da una bomba il PIL cresce due volte perché l'industria delle armi potrà produrne un'altra e l'edificio dovrà essere ricostruito" è un'altra di quelle contestazioni che rientrano nell'ambito delle critiche al sistema capitalistico che è cattivo ecc ecc...

Ipotizziamo un edificio distrutto da una bomba con una vittima:
- il PIL aumenta perché verrà probabilmente fabbricata una bomba in più;
- il PIL aumenta perché l'edificio sarà da ricostruire;
- il PIL aumenta aumenta per via delle spese per il funerale;
- il PIL diminuisce perché la vittima non lavorerà più (o comunque non contribuirà più economicamente)
- il PIL diminuisce perché se in quell'edificio c'era una fabbrica o un'attività di altro tipo questa si blocca del tutto;

In sintesi, alla fine dei conti bisogna vedere se i valori che aumentano compensano quelli che diminuiscono.
In genere non compensano, per il semplice fatto che il contributo derivante dalla ricostruzione sarebbe più lento rispetto al crollo improvviso della produzione nell'edificio, per esempio.
Per di più ci sono molti ostacoli che impediscono un'immediata ripresa in altra forma dell'attività bloccata, tali da peggiorare ulteriormente la dinamica negativa ipotizzata.
Infatti, se estendiamo su larga scala queste considerazioni, notiamo che l'Emilia post-terremoto è stata ampiamente danneggiata economicamente e quindi il suo PIL ne risentirà pienamente, perché è pur vero che ci sono case, capannoni, beni e strade da ricostruire però un'intera zona ha praticamente smesso di produrre in pochi giorni (stesse considerazioni per il Giappone, anche se qui entrano in gioco ulteriori variabili).

Detto ciò, il PIL ha i suoi difetti sul piano della misurazione del benessere, ma è un buon indicatore puramente "economico" (che è quello che statisticamente è più rilevante per le varie misurazioni).

Torniamo ai quattro indicatori
Se questi fattori incidono sulla crescita dell'economia è abbastanza facile intuire perché siamo in crisi in questo momento (tralasciando le cause quindi).
I consumi, ampiamente determinanti, sono scesi parecchio perché ci sono meno soldi;
le imprese non investono perché le aspettative non sono ottimistiche per il futuro (l'articolo indica le tasse prima di tutto, queste sono sicuramente importanti ma molto più determinante è la previsione di ripresa dei mercati e dei consumi, altrimenti pochi saranno incentivati a investire soldi per migliorare la produzione);
la spesa pubblica viene tagliata per via degli obblighi di bilancio;
le importazioni negli ultimi dieci anni sono sempre state superiori alle esportazioni, quindi non hanno contribuito al PIL anzi lo hanno ridotto, solo quest'anno abbiamo avuto il primo avanzo dovuto ad una riduzione dei consumi/importazioni molto consistente (le importazioni che facciamo noi, sono un incremento di PIL per lo Stato da dove provengono).
















venerdì 18 gennaio 2013

Un po' di chiarezza sul redditometro

Visto che giornalisti e politici non fanno che creare allarmismo sull'applicazione del redditometro, e vista la difficoltà di comprensione per chi non è pratico di questioni fiscali, è meglio chiarire dinamiche e funzionamento di tale strumento.

[i giornali più seri, come Linkiesta e il Post, hanno infatti tracciato un quadro molto chiaro e senza allarmismi al riguardo]

Il c.d. "redditometro" è uno strumento di accertamento GIA' presente da molti anni nel novero degli strumenti a disposizione dell'Amministrazione Finanziaria per contrastare l'evasione; in sostanza il reddito del contribuente viene stimato sinteticamente sulla base delle spese sostenute, per capire come mai quello dichiarato sia minore delle spese fatte.

Nel 2010, però, TREMONTI lo ha potenziato per "renderlo più efficiente e dotarlo di maggiori garanzie per il contribuente", definendone le caratteristiche di base (prima era abbastanza impreciso e inefficace), mentre il D.M. che ne ha dato effettiva attuazione è stato emanato da Monti.

Le modifiche hanno riguardato ovviamente il grado di incisività, prevedendo che se il reddito dichiarato differisce del 20% dalle spese effettuate, allora l'Ufficio stima il reddito considerato "realmente percepito" ed è obbligato a convocare il contribuente per chiedergli se tale differenza è giustificata da redditi o introiti non conosciuti dal Fisco (per esempio i redditi ritenuti alla fonte, che proprio perché già tassati prima che il contribuente li riceva allora non sono da dichiarare), ma SOLO se non viene fornita una spiegazione riscontrabile dai dati si procede al processi di riscossione-accertamento vero e proprio.
Tale determinazione si fonderà anche sulla base di campioni omogenei di capacità contributiva (in base al nucleo familiare, area territoriale ecc) e le categorie di spesa soggette a monitoraggio sono sette (con all'interno circa 100 indicatori diversi) e riguardano praticamente tutti gli aspetti della vita quotidiana.
Il valore di queste spese e degli altri indicatori è preso dall'Anagrafe tributaria (se disponibili), altrimenti si fa riferimento agli indicatori medi elaborati dall'ISTAT.

E' chiaro che questo sistema è molto generico e non tiene conto delle differenze tra nuclei familiari, però è molto utile per contrastare la micro-evasione quotidiana messa in atto dai singoli cittadini anche per piccole cose, senza considerare che non è così automatico e "implacabile" come vogliono far passare.
E' stato per esempio indicato dall'Agenzia delle Entrate, che gli scostamenti mensili fino a 1.000 euro (quindi 12.000 l'anno) sono passabili senza problemi.
Non dimentichiamoci poi che il Fisco, per evitare che i cittadini vivano col terrore di dover giustificare spese o subire controlli, ha rilasciato pochi mesi fa il Redditest, un software che una volta installato permette di confrontare in forma anonima le spese e i redditi del proprio nucleo familiare, così da capire subito se si è in una situazione di scostamento grave o meno.
Per di più prima dell'attuale revisione di questo strumento, le imprecisioni erano tali che bastava il solo possesso di un determinato bene o spesa per giustificare un reddito di un certo tipo (era necessario riformarlo), rendendolo così ancora più iniquo e meno utilizzabile.

E' vero che l'onere della prova è stato posto in capo al contribuente, il quale deve così indicare con quali soldi ha pagato le spese, però essendo in sostanza una presunzione semplice (cioè sono solo indizi dedotti dal Fisco) è chiaro che tale meccanismo non avrebbe retto, infatti la Cassazione (sentenza n.23554/2012) ha dichiarato che spetta all'Amministrazione Finanziaria "personalizzare" caso per caso, chiamando in causa il contribuente per capire se esistono redditi di cui non è a conoscenza ed eventualmente integrando con maggiori e diversi controlli, da cui poi scaturiranno gli eventuali atti di accertamento che porteranno al contenzioso vero e proprio.
In sostanza non basta la statistica (ovviamente) e la non convincente spiegazione del contribuente, per avviare un procedimento contro lo stesso.
E' vero che si tratta della giurisprudenza (e non della modifica della legge in questione), però in caso di controversie è l'ultimo organo giudicante, per cui se l'Amministrazione dovesse essere insistente senza particolari motivi o scostamenti, si può contare su un orientamento giurisprudenziale favorevole in linea di massima.

*Aggiornamento: un comunicato stampa dell'Agenzia delle Entrate precisa che i pensionati non saranno mai oggetto di verifica tramite redditometro, poiché riguardano casi particolari dove sostanzialmente non ha senso utilizzarlo, inoltre dovendo effettuare ogni anno 35 mila controlli sulla base di questo strumento è evidente che dovranno concentrarsi solo sugli scostamenti di maggiore rilievo.

Inoltre quelli che dicono che deprimerà ulteriormente i consumi ecc ecc non considerano il fatto che se uno non ha redditi "occultati" al Fisco non ha nulla da temere perché da qualche parte i soldi sono arrivati (in modo legale) e l'unica precauzione da prendere è di utilizzare il più possibile gli strumenti bancari soprattutto per trasferire il denaro (inteso come reddito) e solo secondariamente per tenere tracciabili le spese (tenere gli scontrini non è particolarmente utile né incisivo, in questo caso).

Insomma, concentrarsi maggiormente sulle entrate (i redditi dell'anno) e renderle le più trasparenti possibili, ovvero meno contante possibile; si tratta di misure già intraprese al riguardo dagli altri paese occidentali avanzati, che non richiedono uno sforzo immane per i contribuenti.

A chi ritiene che questa misura e le precauzioni indicate identifichino uno Stato di polizia tributaria/fiscale che caratterizza un caso tutto italiano, vorrei solo ricordare che il "caso italiano" ha un'evasione fiscale di circa 120 mld (tasse non pagate), mentre l'economia sommersa (che sfugge completamente al Fisco) si aggira tra i 350 e i 550 mld.
Shut the fuck up, please.













mercoledì 16 gennaio 2013

Una breve riflessione su patrimoniale e debito pubblico...

Visto che siamo in piena campagna elettorale, viene spesso citato il problema dell'alto debito pubblico italiano e l'idea, molte volte correlata, di introdurre un'imposta patrimoniale "sui grandi patrimoni" o "sui super-ricchi" per ridurlo o per fare cassa, insomma la solita retorica e demagogia che aiuta a identificare chi di economia e fisco non capisce niente e non ha una vaga idea sul da farsi.
Oltretutto il debito pubblico ha recentemente sforato il tetto dei 2.000 miliardi di euro (al 126% del PIL), destando ulteriore preoccupazione e sfiducia sulla ripresa italiana.

In tale contesto l'idea generica che mi è passata per la mente è questa:
perché non ridurre il debito pubblico detenuto da noi italiani a fronte di una riduzione delle tasse (o maggiore spesa pubblica)?
In fondo si tratta di un aiuto economico che noi concediamo ora allo Stato in cambio di interessi periodici e del ritorno del capitale a fine "prestito" e che lo Stato chiede per "svolgere meglio investimenti e funzioni" (altrimenti sarebbe costretto ad alzare di molto le tasse ogni volta che bisogna finanziare una grossa opera pubblica, invece di diluirne il peso nel tempo).

Bisogna intanto specificare che tale idea, nella sua forma teorica, è stata concepita da Marco De Viti, il quale proponeva una drastica riduzione del debito pubblico a fronte di una riduzione del carico fiscale ("ammortamento democratico"), come dire "tanto vale annullarlo ora, riducendo subito le tasse, piuttosto che aspettare chissà quanti anni per ridurle gradualmente".
In realtà tale concetto è considerato appunto teorico, perché De Viti sosteneva che un'operazione del genere potesse funzionare solo nel caso in cui il debito fosse equamente distribuito tra tutti i cittadini, solo ed esclusivamente italiani, e la tassazione fosse unica e uguale per tutti; ovvero utopia e perciò abbandonato.

Tralasciando la teoria, la quale è troppo restrittiva sulle condizioni di base per poter anche solo pensare ad un'operazione del genere, se ragioniamo e limiamo un po' questo concetto vedremo che i presupposti per realizzarlo invece ci sarebbero o per lo meno la sua realizzazione non sembrerebbe così fallimentare come sembra dalla teoria.
Come al solito serve qualche dato, anche perché non stiamo parlando di pizze.

Premesse:
  • le stime della Banca d'Italia per ottobre 2012 (le ultime) indicano che dei 2.015 miliardi di debito pubblico totale, circa 700 è in mano a non residenti (circa il 35%), anche se effettuando le opportune rettifiche si arriva a 430 mld soltanto, inoltre, considerando solo i titoli quotati, circa 98 miliardi sono detenuti dalla Banca d'Italia stessa, altri 366 da istituti finanziari (più altri 337 di altre istituzioni finanziarie) e 214 circa dalle famiglie italiane e imprese.
  • l'ultimo bollettino disponibile del Dipartimento del Tesoro (novembre 2012) ci informa che i titoli di debito pubblico in circolazione sui mercati hanno un valore di 1.639 miliardi.
    Ci viene inoltre detto che nel 2013 andranno in scadenza titoli per 310 miliardi circa.
  • ai titoli di Stato si applica un regime fiscale particolare: 
    • per le persone fisiche (singoli cittadini) si applica una imposta sostitutiva sugli interessi (semplifichiamo: solo su interessi) del 12,5%, per esempio se l'interesse di un BTP da 1.000 euro è del 4% (40 euro) allora 12,5%*40 mi dà il valore dell'imposta applicata (5 euro); 
    • se si svolge un'attività commerciale, l'interesse maturato concorre al reddito complessivo dell'attività in questione (sarà tassato dopo con tutti gli altri redditi);
    • per i non residenti non è prevista alcuna imposta se fanno parte di paesi nella "white list" oppure se hanno un'attività qui in Italia (vale il punto precedente), altrimenti si applica l'imposta sostitutiva del 12,5%;
    • fondi immobiliari, fondi pensione e OICVM sono assoggettati ad un regime simile ma più complicato (di cui non parleremo);
  • gli ultimi dati disponibili della Ragioneria dello Stato (fine 2011) ci dicono che le entrate derivanti da imposte sostitutive applicate nella misura del 12,5% hanno portato 4,2 mld circa (5,2 mld previsti per il 2012).
    A noi interessano queste imposte sostitutive in particolare perché riguardano prevalentemente le persone fisiche e i fondi indicati poco sopra (ed eventualmente i non residenti "non white list").
  • la detrazione avviene quando dalle imposte dovute si può sottrarre (detrarre) un determinato ammontare.
    Ovviamente la detrazione può avvenire solo fino ad annullare l'imposta in questione, non oltre (non si può andare a credito).

In sostanza vediamo che lo Stato paga ha pagato circa 87 mld di interessi sul debito pubblico totale nel 2011 (previsti  intorno ai 96 mld quest'anno), che vuol dire circa il 4,5%-5% di tasso di interesse medio, incassando dalle persone fisiche, dai fondi di cui sopra e dai non residenti di paesi non white list circa 4,2 mld.
Perciò dei circa 90 miliardi interessi, pressapoco un terzo derivano da titoli appartenenti a famiglie, imprese e fondi a fronte di un rientro, in termini di entrate, di soli 4,2 mld. Sembra poco conveniente. Sembra, appunto, perché in realtà allo Stato comunque conviene farsi prestare, sia perché si è sempre fatto così per evitare di dover tagliare spesa pubblica o aumentare tasse (e infatti guarda che bel debito che abbiamo), sia perché i rendimenti offerti da alcuni titoli, soprattutto nei periodi non di crisi, sono talmente bassi che a volte non superano l'inflazione (fenomeno molto evidente negli anni '70), cioè il rendimento offerto (per es. 2%) è minore dell'aumento percentuale del tasso di inflazione (3%), per cui chi investe in realtà non riesce a coprirsi sufficientemente dagli effetti dell'inflazione (perché quello che ricevi compra meno cose di prima, sinteticamente).

Vale comunque la pena definire la proposta in questione, anche perché tanto è talmente sconosciuta e "particolare" che è ancora meno fattibile di un'uscita dall'euro.

Tralasciando i dettagli giuridici (comunque quasi tutti i titoli fanno riferimento alla legislazione nazionale), ipotizziamo che il primo gennaio 2014 il Governo annulli 214 mld di titoli di debito quotati (un valore corrispondente alla parte detenuta da famiglie e imprese), risparmiando 9-11 mld di interessi: poiché i titoli non sono equamente distribuiti tra tutti, potrebbe lasciare la possibilità ai possessori di portare a riduzione dalle tasse il valore dei titoli posseduti.
Si tratterebbe di una detrazione al 100% del valore nominale dei titoli dalle imposte dovute; nessuna perdita.

Gli effetti sul bilancio pubblico saranno di grande entità: si può pensare che in sede di previsione di spesa per il 2014 ci saranno indicativamente 10 mld in meno di interessi che potranno andare ad alimentare la spesa pubblica produttiva, generando un aumento di PIL nell'ordine dei 10-15 mld, che porterà maggiori entrate, o a riduzione delle tasse (che però porterà benefici di uguale entità solo se verrà usata per ridurre IVA o IRES, per motivi da discutere in altro post).
D'altro canto è imprescindibile lavorare sulla detrazione in questione, in quanto non è pensabile che in un solo anno sia possibile detrarre 214 miliardi, fatto che determinerebbe minori entrate per lo stesso importo (fallimento dell'equilibrio di bilancio, praticamente);
l'ideale sarebbe dare opportunità diverse a seconda che i titoli siano posseduti da imprese/autonomi o da persone fisiche, ipotizzando che i cittadini posseggano 160 mld e le imprese/autonomi i restanti 54:
per le persone fisiche si potrebbe dare la possibilità di detrarre dalle imposte (di solito IRPEF) il valore nominale dei titoli posseduti, prevedendo un limite massimo di 50.000 oltre il quale si scagliona in più anni (molto probabilmente sarà così in ogni caso, infatti per le prime fasce di reddito sarebbero sufficienti 10.000 euro per non pagarla); per le imprese (volendo anche per gli istituti finanziari, se coinvolti nell'operazione) invece non è necessario mettere alcun limite alla detrazione, perché il valore degli interessi concorre comunque a determinare il reddito totale dell'impresa (quindi stiamo parlando di valori molto più consistenti di reddito tassabile).

In questo modo è pensabile che nei primi due-tre anni la maggioranza dei possessori abbia usufruito quasi totalmente della detrazione, permettendo al bilancio pubblico di assorbire il colpo diluendo le minori entrate in circa 40-50 mld in meno all'anno.
Sembra un valore ancora inconcepibile, in realtà dobbiamo considerare che contemporaneamente si avrebbero i seguenti benefici:
- minori interessi per 10 mld circa l'anno;
- aumento del PIL in misura pressoché pari o superiore all'aumento di spesa pubblica conseguente o alla riduzione di determinate imposte (è la variabile più consistente tra tutte);
- dopo una prima fase di volatilità, la diminuzione degli interessi sui titoli in circolazione rimasti (quanto meno quelli a tasso variabile e le prossime emissioni), perché in situazioni normali la diminuzione di offerta di titoli ne determina un aumento del valore e una corrispondente riduzione del tasso d'interesse (relazione inversa valore dell'obbligazione e tasso d'interesse); passare anche solo da una media del 4,5% al 4% determinerebbe 7-8 mld in meno;
- i titoli in scadenza (310 mld nel 2013) dovranno essere solo in parte rinnovati (nel caso prospettato si parla di un ricorso al mercato per soli 96 mld in tutto l'anno).

Alcuni casi dubbi
Se immaginiamo un pensionato che ha investito tutti i suoi 10.000 euro in banca in BTP, possiamo immaginare che questi rimanga sostanzialmente senza risparmi in banca per un anno, in realtà la detrazione verrebbe calcolata a partire dall'anno stesso, su base previsionale, dai relativi sostituti di imposta (in questo caso l'INPS), che vista la particolarità dell'operazione giustificherebbe una detrazione contestuale (non un anno dopo come avviene di solito per le detrazioni fiscali), così che rimarrebbe sì senza risparmi, ma ogni mese a partire da quello successivo all'attuazione della proposta beneficerebbe di una pensione "più alta" per via delle minori tasse; per es. una pensione di 12.000 euro l'anno, che pagava 2520 euro l'anno di tasse (quindi 9480 euro netti) beneficerebbe ogni mese di 210 euro in più, recuperando i risparmi persi in 4 anni (se ipotizziamo che non abbia nessun altro reddito).
Più problematico il caso di qualcuno che non percepisce alcun altro reddito se non quello derivante dagli interessi dei titoli, per fortuna un caso raro (vivere di interessi di titoli di Stato richiederebbe il possesso di un valore almeno pari a 300 mila euro), in cui sarebbe forse consigliabile non attuare la proposta in questione.

Certamente tutti si preoccuperanno (giustamente) di eventuali emergenze "di liquidità" (in cui di solito si ricorre ai risparmi in banca), però la proposta è sicuramente migliorabile (qualche consiglio sarebbe ben accetto) e se ben sviluppata potrà tener conto anche di tali aspetti, nel frattempo non dimentichiamoci la stagnazione economica in cui viviamo e le prospettive non rosee anche per questo 2013 e della conseguente necessità perciò di attuare politiche di ampia portata.

Comunque sia la proposta in questione non è definita, anzi, data la sua novità è perfino più consigliabile agire in modo molto prudenziale, per cui invece di annullare esattamente tutta la parte di debito finanziata da famiglie e imprese si potrebbe dare la possibilità, su base volontaria, di portare in detrazione solo la parte di debito che si vuole annullare, in questo modo si è sicuri che non vi saranno squilibri troppo grossi nei "bilanci familiari".















sabato 12 gennaio 2013

Euro o non Euro? PARTE III

Premesse della terza parte:
  1. Il coefficiente di trasferimento (pass-through) è l'intensità con cui una variazione del tasso di cambio (di solito una svalutazione) si trasferisce sul prezzo dei beni nazionali: per esempio se in seguito ad una svalutazione del 10% l'inflazione aumenta del 5%, allora il pass-through è dello 0,5 (ovvero 50%)

  2. teoricamente parlando, quando avviene una svalutazione di solito la bilancia commerciale ritorna in positivo (o migliora); eventuali ritardi nell'aggiustamento della stessa possono essere dovuti a tre effetti diversi (Magee, 1973):
    • il currency contract period è quel breve periodo di tempo susseguente alla svalutazione in cui vengono a scadenza i contratti stipulati prima della svalutazione; se molti contratti sono stipulati in valuta estera (nel timore di possibili svalutazioni) allora dopo la svalutazione il valore in valuta nazionale di import ed export aumenterà della stessa percentuale della svalutazione, per cui il deficit aumenterà temporaneamente (perché il valore il valore pre-svalutazione delle importazioni è maggiore di quello delle export).
    • il pass-through period è quel breve periodo successivo alla svalutazione, quando i prezzi possono variare (perché riferiti a contratti stipulati dopo la svalutazione) mentre le quantità rimangono invariate a causa della rigidità della domanda e/o dell'offerta di importazioni ed export (per esempio il prezzo cala in seguito ad una svalutazione, ma poiché la domanda è rigida le quantità importate rimangono le stesse, per cui la bilancia non migliora o peggiora momentaneamente).
    • il quantity adjustment period è quel breve periodo in cui sia i prezzi sia le quantità possono variare, però poiché è possibile che le quantità si aggiustino più lentamente dei prezzi, può capitare che la bilancia peggiori prima di migliorare.

  3. la curva a J descrive il ritardo con cui la bilancia commerciale o la CA migliorano in seguito alla svalutazione; può infatti accadere, anzi, che l'effetto iniziale di una svalutazione sia di rendere più costose le importazioni, mentre l'aumento prospettato delle export avviene con maggiore ritardo (andamento a J perché inizialmente la bilancia peggiora e poi migliora)

  4. il differenziale d'inflazione è la differenza tra il tasso di inflazione di due o più paesi.
    Il differenziale cumulato d'inflazione è la somma totale di tutti i differenziali di inflazione cumulati negli anni tra due paesi (per esempio differenziali tra Germania e Italia pari a 4% nel 2012, 5% nel 2013, 3,3 nel 2014 = 12,3% differenziale totale cumulato). A noi interessa ovviamente quello tra Italia e Germania, appunto.
    Questo è inoltre un modo molto semplice per identificare la perdita di competitività tra due paesi, basti considerare che anche solo un differenziale annuo dell'1%, può portare dopo dieci anni ad un differenziale cumulato del 10%, che si traduce in una costante perdita di competitività (perché comporta aumento dei prezzi nazionali maggiori rispetto all'altro paese considerato), nel caso in cui il cambio tra i due paesi in questione non sia libero/flessibile.

  5. il valore nominale di un obbligazione/titolo di debito è il relazione inversa rispetto al tasso di interesse; cioè se un titolo che vale 1000 e dà interessi del 3% perde valore (poco richiesto sul mercato), per essere più "appetibile" dovrà dare interessi maggiori, ma se ciò non è possibile perché l'interesse non è modificabile, allora il valore nominale diminuirà di conseguenza (è quello che è successo qualche mese con i nostri BTP: essendo considerati rischiosi, i mercati chiedevano interessi maggiori su quelli nuovi, ma nel frattempo quelli già sul mercato diminuivano di valore, non potendo modificare l'interesse).

Se dovessimo uscire dall'Euro...
  • la svalutazione della "nuova lira" sarebbe intorno al 11% (BofA and Merrill Lynch, 2012), oppure del 12% (differenziale di inflazione cumulato); in quest'ultimo caso il valore è quello corrispondente al differenziale cumulato di inflazione tra Italia e Germania.
    Ci sono state ipotesi di svalutazione oltre il 20%, ma questo sembra uno scenario poco attendibile.
  • il coefficiente pass-through italiano è stato stimato intorno al 36% (Goldfajn e Werlang), per cui ipotizzando (per eccesso) una svalutazione del 12%, solo il 36% di tale svalutazione si tradurrebbe in inflazione l'anno successivo; ipotizzando un'inflazione del 2%-2,5% il prossimo anno, il 36% del 12% è uguale al 4,3%, per cui vuol dire che l'inflazione l'anno successivo all'uscita potrebbe essere del 6,8 (2,5+4,3). Si tratta di valori tutto sommato esigui e facilmente controllabili (anche ipotizzandola fino al 9-10% totale) e che sono comunque immaginati nel caso di totale assenza di politiche anti-inflazionistiche (impensabile che il Governo o la Banca Centrale rimangano immobili).
    Un altro studio (Bootle) ipotizza invece una maggiore inflazione del 5% il primo e il secondo anno (non siamo comunque oltre il 10%).
  • se abbiamo svalutato del 12%, vuol dire che quando compriamo da Obama una Focus la paghiamo il 12% in più (semplificando), per esempio se costava 10.000 ora costerà 11.200, ma se compriamo una Panda possiamo ipotizzare che l'inflazione ne abbia spinto il prezzo fino al 7% (è un'ipotesi pessimistica), così se costava 10.000 ora costa 10.700 (tutto sommato accettabile).
  • tutti sono preoccupati dal prezzo della benzina;
    innanzitutto se la benzina, come tutti i beni, aumenta del 7% ipotizzato vuol dire che passa da 1,75 a 1,87 ma ci dimentichiamo che possiamo benissimo sterilizzare in tutto o in parte questo effetto semplicemente riducendo le accise di poco (non dobbiamo dimenticarci delle premesse del post precedente, per cui le maggiori esportazioni portano aumenti di reddito dei residenti che si traducono a loro volta in maggiori entrate fiscali); senza contare che oltre un certo prezzo, la gente, per quanto poco sostituibile la benzina, cercherà ogni possibile "sostituto" al bene costoso in questione (effetto sostituzione), per cui quando si sono sfiorati i due euro e si è capito che non era esattamente un aumento temporaneo, i consumi sono drasticamente calati (pur essendo un bene a domanda rigida, cioè poco sostituibile), finché non si è tornati in zona 1,7-1,75 (semplificando).
  • Non è che le imprese italiane importano tutti i beni necessari a produrre, ma solo una parte di essi, perciò in tal caso è possibile che il costo di questi aumenti del 12% (per esempio ipotizziamo un grosso acquisto di 300.000 che potrebbe aumentare fino a 336.000);
    l'aumento in questione non sarebbe comunque immediato, per cui i costi non aumentano subito del 12% mentre invece per gli acquirenti esteri i prodotti nazionali sono da subito convenienti il 12% in più di prima (il tasso di cambio si modifica da un giorno all'altro o comunque nel breve periodo), perciò le esportazioni e la domanda estera aumenteranno quasi subito, compensando gli eventuali maggiori costi graduali (infatti la storia insegna che, di solito, dopo una svalutazione c'è una ripresa economica)
  • il precedente italiano c'è: nel 1992 la lira si svalutò del 20% in un anno, ma guarda un po' l'inflazione in quel caso addirittura passò dal 5% al 4%, e l'anno successivo cominciò la ripresa economica
  • i tassi d'interesse sul debito non schizzerebbero alle stelle e men che meno la nuova lira sarebbe oggetto di "selvagge speculazioni".
    Questo per il semplice fatto che non stiamo dichiarando default per non pagare il debito, ma stiamo semplicemente svalutando quel tanto che basta per riprendere a crescere; i mercati finanziari sono sregolati e si muovono a gregge, spesso però sono abbastanza razionali (anche se può sembrare strano): per esempio l'Argentina nel 2001 aveva accumulato un differenziale di inflazione con gli USA del 190% circa, così quando svalutò del 232%, i mercati capirono che era in realtà un valore esagerato e i due anni successivi il pesos addirittura si rivalutò! Ovvero i mercati ritenevano che il valore della valuta era troppo basso, PUR ESSENDO FALLITO lo Stato; questo non dimostra che gli operatori finanziari sono belli e buoni, ma solo che ricercando occasioni di profitto sfruttano le incongruenze e le differenze di valore ovunque si presentino (così come nel 1992 Soros speculò contro la lira solo perché aveva un cambio troppo alto rispetto ai fondamentali). Poi se vogliono testare la nostra solidità lo possono benissimo fare, certo le variazioni nei tassi (se ci saranno) non potranno essere sostenute per più di poco tempo (è necessaria una vendita ingente e continua nel tempo di titoli per variarne così tanto il prezzo e l'interesse).
    Ovviamente l'uscita non sarà una passeggiata, tutti saranno preoccupati e in ogni caso nei primi mesi successivi è possibile che gli operatori richiedano tassi d'interesse più alti (ma solo per compensare il fatto che la svalutazione ne ha diminuito il valore, si veda il punto 5) e che lo spread aumenti momentaneamente, per via della portata di tale evento.
  • oltre alle varie crisi inevitabili a cui andremo incontro (e a tutti gli altri problemi delineati nel precedente post), un altro motivo per darsi una mossa è che non potendo svalutare né riuscendo a mantenere un inflazione uniforme (cioè annullare il differenziale), l'unico modo per rimanere competitivi è attuare una "svalutazione" sui salari (così come ha fatto la Germania, vedasi post precedente), cioè ridurli.
    Questo è un fatto economico, cioè se O > D perché i nostri prodotti sono poco competitivi, o noi compriamo solo "roba italiana", altrimenti non potendo variare l'input del tasso di cambio verso la Germania, sarà necessario ridurre il peso del fattore lavoro (o licenzi o abbassi i salari).
    Dopo una decina d'anni di Euro saremmo già tutti a casa disoccupati, secondo questo fatto, ma per fortuna esistono anche altri fattori non di prezzo che ancora tengono un po' su la domanda (per esempio l'interesse per una Ferrari), comunque solo per alcuni settori specifici e che senza le riforme strutturali necessarie non possono gestire adeguatamente la domanda.
  • il costo del mutuo e dei vari prestiti fatti dalle banche ai singoli cittadini/imprenditori NON aumenteranno, cioè un rata di 500 euro diventerà una rata di 500 nuove lire, punto.
    Se proprio andiamo nel particolare, solo un pazzo che ha pensato di stipulare un mutuo in una valuta estera (mutuo in dollari per es.) si vedrebbe aumentata la rata di una percentuale pari alla svalutazione.
    Per quanto riguarda i debiti privati verso l'estero, nel solo caso in cui siano regolati dal diritto estero, questi aumenterebbero inevitabilmente. Non dimentichiamoci però che in seguito all'uscita saremo molto più liberi di concedere crediti (maggiore liquidità delle banche) e avremo ampi margini di movimento in termini di spesa pubblica, per cui tali passività potranno essere meglio gestite (inoltre nel 1992 le passività delle banche italiane erano pressapoco allo stesso livello, ma in seguito alla svalutazione non ci furono bancarotte a catena o cose simili).
  • il debito pubblico italiano quotato non raddoppierà né dovrà essere pagato in euro (tranne nel raro caso in cui sia sottoposto alle norme di legge internazionale), perciò dagli attuali 2000 miliardi circa diventerà 2000 miliardi di nuove lire, punto.
    Attualmente il debito pubblico quotato in mano estera è del 35% circa (sul totale del debito quotato e non), ma questo non cambia nulla, semplicemente succederà quanto esaminato tre punti più in alto, in relazione ai tassi d'interesse.

Come ripetevo già nel primo intervento, l'ideale non sarebbe pensare a tutti i costi ad un'uscita quanto piuttosto tenere tale alternativa lì presente qualora servisse, così da poterla anche pianificare un po' meglio (piuttosto che aspettare di trovarsi coinvolti in un'altra grossa crisi).












venerdì 11 gennaio 2013

Euro o non Euro? PARTE II

Se il precedente post sull'argomento è stato chiaro (soprattutto per quanto riguarda le premesse), non resta che entrare più nel dettaglio per risolvere molti dei dubbi che circondano le possibili correzioni ai problemi di mancata integrazione tra gli Stati dell'Euro.
Della soluzione riguardante riforme strutturali volte a garantire maggiore uniformità ne abbiamo già sinteticamente parlato (ed eventualmente si potrà approfondire più nel dettaglio in un post a parte), mentre l'altra opzione, cioè l'uscita vera e propria, è ancora tutta da esaminare.

Le premesse di questa seconda parte:
  1. L'elasticità, in economia, indica la variazione percentuale di una determinata variabile in seguito alla variazione di un'altra, per esempio l'elasticità della domanda al prezzo indica di quanto varierebbe la domanda in relazione ad un aumento/diminuzione di prezzo:
    • se il prezzo varia del 10% e di conseguenza la domanda aumenta più del 10% allora si dice che la domanda è elastica rispetto al prezzo;
    • se il prezzo varia del 10% e di conseguenza la domanda aumenta meno del 10% allora si dice che la domanda è anelastica/rigida rispetto al prezzo;
    • se il prezzo varia del 10% e di conseguenza la domanda aumenta esattamente del 10% allora si dice che la domanda è ad elasticità unitaria rispetto al prezzo;
  2. La bilancia dei pagamenti (BoP) è il documento contabile che registra le transazioni economiche tra residenti e non residenti (compresi crediti e debiti).
    La sezione più importante di questo documento riguarda il Conto Corrente (d'ora in poi CA), che registra crediti, debiti, export, import, redditi da lavoro (stipendi di chi va a lavorare all'estero, mantenendo la residenza in Italia), redditi da capitale (interessi e dividendi che spettano ai residenti, da parte dei non residenti) e trasferimenti unilaterali (rimesse emigrati, contributi ad organismi internazionali, aiuti finanziari a paesi poveri ecc).
    Volendo ulteriormente specificare, si può delineare all'interno del CA la bilancia commerciale, ovvero esportazioni meno importazioni.
  3. Il debito estero è il debito di tutta la collettività, pubblico e privato, verso qualunque ente o singolo creditore estero (non ha nulla a che vedere col debito pubblico).
    Il debito privato è il debito totale del settore privato (famiglie e imprese) verso residenti e non.
  4. Per "valuation effect" si intende la variazione del tasso di cambio e/o del prezzo che incide su attività e passività finanziarie (in questo caso lo usiamo in relazione alla posizione creditoria o debitoria verso l'estero, ovvero NFA).
  5. (Basi di economia, semplificando al massimo effetti e tempistiche)
    Ipotizzando l'Italia da sola, con la lira e con tasso di cambio flessibile, con D che è la domanda e O l'offerta:
    • se la D estera di nostri prodotti aumenta ---> aumentano le esportazioni, aumenta il reddito nazionale (entrano più soldi dall'estero per pagare le maggiori esportazioni), aumenta/si "apprezza" il tasso di cambio della lira (perché è molto richiesta dall'estero per pagare le merci che l'estero compra) e perciò aumentano piano piano anche le importazioni (perché entrano più soldi che in parte la gente spenderà).
      Tale situazione va avanti finché per via dell'alto tasso di cambio (che dall'estero vuol dire più soldi per pagare gli stessi prodotti) e per via delle maggiori importazioni, i prodotti diventano sempre meno competitivi (meno acquistati) e la CA va in negativo. Quando il tasso di cambio diminuisce/si "svaluta", nel tempo, raggiungendo un punto considerato competitivo, allora si riparte dall'inizio.
    • se la D interna di nostri prodotti aumenta ---> l'unica conseguenza principale è che l'O e i prezzi aumenteranno costantemente finché non sarà più conveniente acquistare i prodotti nazionali (meglio importare) e ci saranno troppi prodotti in circolazione rispetto alla D nazionale. Da qui in poi i prezzi e l'O saranno rimodulati in relazione alle esigenze, nel tempo, finché non si riparte dalla situazione iniziale.


Un'ulteriore premessa dovrebbe riguardare il fatto che io non voglio l'uscita dall'Euro il prima possibile, ma semplicemente voglio dimostrare che tale possibilità è meno problematica di quanto sembri (economicamente parlando, mentre politicamente sarebbe ora impraticabile), nel caso ci fossero nuovi shock  o crisi importanti.

Detto questo andiamo a vedere chi sono i maggiori sostenitori della "pericolosità" dell'Euro:

- Paul Krugman (Premio Nobel nel 2008, apertamente di sinistra) ha sostenuto che l'Unione monetaria, per come è concepita, fa solo gli interessi della Germania (forte paese creditore) e che in questo modo gli altri paesi rischiano di sprofondare in una deflazione sul modello giapponese.

- Rudiger Dornbusch (Ex professore al MIT, allievo di Mundell) ha sostenuto che l'Euro non risolverà i problemi europei, che l'Italia crollerà di nuovo in seguito a tale situazione e che non permettendo la svalutazione agli Stati sarà necessario rendere più flessibile il mercato del lavoro (cioè i salari).

- Martin Feldstein (Professore ad Harvard) ha sostenuto che un unione di questo tipo non potrà che aumentare i conflitti tra gli Stati e che il problema più grave è stato quello di non prevedere una legittima via di uscita.

Dominik Salvatore (Professore alla Fordham) ha sostenuto che nel caso di uno shock importante, questo provocherebbe una pressione insopportabile all'interno dell'unione, data la scarsa mobilità del lavoro e l'inadeguata redistribuzione fiscale, inoltre ipotizzando una BCE che vuole mantenere a tutti i costi l'inflazione bassa (come prescrive il suo statuto) così da tenere l'euro forte rispetto al dollaro.

- Joseph Stiglitz (Premio Nobel nel 2001) ha sostenuto che se non verrà riformato l'Euro, allora sarà più conveniente tornare alle vecchie monete.

[Questo solo per citare i contributi economici più autorevoli]


Ora non resta che capire cosa indicano i dati, quali sono e se queste differenze esistono e di che ordine e grado sono.
Gli Stati membri della Zona Euro sono 17.
Secondo la stessa Commissione Europea, nella Area Euro, ci sono sostanzialmente quattro paesi in costante surplus di partite correnti (pag. 17 e ss.), ovvero con un Conto Corrente o Bilancia Corrente (CA, si veda sopra) positivo.
Questi quattro paesi sono: Germania, Olanda, Austria e Finlandia (Germania e Austria solo in seguito all'entrata nell'Euro, mentre Finlandia e Olanda già in precedenza); questo vuol dire che questi quattro Stati sono dei cosiddetti "paesi creditori" (surplus del CA significa che i crediti, i redditi di lavoro e di capitale in entrata e le esportazioni, in totale, superano i debiti, i redditi di L e di K in uscita e le importazioni).


Figura 1. Saldo (+/-) annuale delle partite correnti (CA) di alcuni paesi dell'Euro, in miliardi di euro, periodo 1996-2011 (Dati Eurostat)


Come si vede dal grafico, la situazione dei conti con l'estero dei principali paesi dell'Eurozona si è deteriorata con l'entrata nell'Euro (o è comunque via via peggiorata), mentre la Germania (linea rossa) registra un surplus vertiginoso pur partendo da una situazione di disequilibrio peggiore degli altri paesi!

Come si spiega questo?
Normalmente si pensa subito al fatto che magari da quel momento la produzione industriale tedesca è diventata di maggior qualità e di maggior competitività rispetto agli altri paesi.
In realtà che la struttura produttiva sia improvvisamente cambiata o che abbia dal nulla cominciato a produrre di più, non è pensabile per il semplice fatto che si tratta di variabili di medio-lungo periodo! Il fatto che la Germania passi da -35 mld circa nel 2000 a +42mld circa nel 2002 (cioè da ampiamente negativo ad ampiamente positivo in due anni) non può essere giustificato da miglioramenti della tecnica o particolare euforia sui mercati internazionali, perché a quel punto anche paesi più forti come la Francia avrebbero dovuto almeno in parte beneficiarne.

La risposta ce la dà la Commissione Europea (stesse pagine):
la performance tedesca di grande aumento delle esportazioni non può spiegare di per se il grande surplus della CA, perché le maggiori esportazioni avrebbero dovuto portare maggiori guadagni che almeno in parte sarebbero diventati maggiori importazioni (come in Grecia, dove con l'entrata nell'Euro le esportazioni sono aumentate, ma anche le importazioni, senza perciò determinare un miglioramento delle partite correnti CA).

Quale è stata la particolarità della Germania?
Tale surplus è dovuto essenzialmente ad una debolezza della domanda, che non è andata ad incrementare le importazioni, mentre negli otto anni prima l'entrata nell'Euro questa era la componente principale della sua crescita.
La Germania è così diventato un paese ampiamente legato alle esportazioni, più che alla domanda interna.
Inoltre il settore privato e il settore industriale (non finanziario) sono diventati dei prestatori netti (cioè nel totale nazionale, questi due settori, prestavano più di quanto chiedessero a prestito), determinando gran parte del surplus delle partite correnti in questione (CA).
La Commissione ritiene che un tale aggiustamento nel settore industriale tedesco sia stato effettuato nei primi anni 2000 tramite un tagli degli investimenti ma soprattutto una MODERAZIONE SALARIALE, cioè un abbassamento dei salari, il quale per di più è stato MOLTO PIU' PRONUNCIATO che negli altri paesi dell'Eurozona (infatti risulta che la domanda interna sia stata molto bassa, ovvero bassi consumi, ovvero maggiori risparmi, ovvero surplus della CA, tutto torna).

[Sulla stagnazione dei consumi in Germania se ne parla anche in questo paper]

Partendo da una posizione di questo tipo, quando c'è stato il boom dei commerci tra il 2004-2007, la Germania ha potuto beneficiare di maggiori esportazioni, come tutti, ma senza incorrere in un aumento delle importazioni e per di più consolidando le finanze pubbliche per via delle maggiori entrate derivanti dalle esportazioni (il settore pubblico tedesco partiva da una situazione di deficit, entrate minori delle uscite, già dai precedenti anni e solo nel 2007 è riuscito a ritornare in pareggio).

Questo NON VUOL DIRE che la qualità della struttura produttiva tedesca in realtà è solo un mito o che a livello industriale Italia e Germania sono uguali. Semplicemente viene indicato (pag. 23 e ss.) che in Germania la maggiore competitività deriva soprattutto da fattori non correlati col prezzo dei loro prodotti. [In aggiornamento].
Viceversa in Italia il fattore prezzo è determinante, con un ampio grado di elasticità delle esportazioni rispetto al prezzo (maggiore o uguale a 5,5 <*>, in questo studio), per cui la rigidità del cambio (che determina il prezzo da pagare da parte degli esportatori) influisce negativamente sul nostro export.
Perciò un tasso di cambio apprezzato incide molto negativamente sulla competitività dei prodotti italiani, mentre quasi non incide sugli esportatori tedeschi (che al contrario ci guadagnano in termini di maggiore entrate).
Per di più il cambio dell'Euro è sempre stato molto "apprezzato" rispetto al dollaro e alle altre valute, sia perché rispecchia 17 economie totali, sia perché è presente anche la Germania che vanta una quantità di esportazioni impressionante (si veda sopra: >export determina aumento tasso di cambio perché la valuta è molto richiesta ecc).
Lo stesso studio infatti conclude dicendo che solo "un'Euro più debole può salvare l'Euro". A tal proposito si indica nel valore EUR/USD 1,2 ma soprattutto in area 1,1 il valore ideale. Per di più dimostra che alla Germania converrebbe pagare ipoteticamente l'Italia affinché rimanga nell'Euro, perché per lei sarebbe comunque una spesa inferiore a quella conseguente ad una eventuale uscita italiana.

[<*> 5,5 vuol dire che, a parità di inflazione, una diminuzione di prezzo o una svalutazione pari a 1% fa aumentare le esportazioni di 5,5%!]

Abbiamo le conseguenze della rigidità del cambio sulle esportazioni e la tipicità dell'economia e dei consumi tedeschi, ora resta da analizzare alcuni dati riguardanti il debito privato.

Il precedente report della Commissione (pag. 29 e ss.) ci indica che la posizione debitoria dei paesi membri con un deficit di partite correnti (CA), verso l'estero, è stata molto influenzata negli anni da valuation effects, che hanno determinato un progressivo deterioramento delle passività/debiti verso l'estero (per via di variazioni di prezzo), amplificando il deficit di CA di tali Stati.
Inoltre se andiamo a confrontare il debito privato in percentuale del PIL, notiamo che tra i paesi dell'Eurozona quelli col maggiore indebitamento, sia prima che dopo la crisi, sono nell'ordine Irlanda, Portogallo, Spagna ovvero i paesi che hanno avuto maggiori problemi durante la crisi.
La Grecia si posiziona poco più in basso in termini percentuali, però il valore in questione è raddoppiato dall'entrata nell'Euro in poi; l'Italia d'altro canto è famosa per un basso indebitamento privato, ma un alto indebitamento pubblico, per via dell'alta propensione al risparmio delle famiglie italiane (propensione che sta via via diminuendo).
La Germania invece, come confermato dal rapporto, ha mantenuto un debito privato abbastanza alto sì, ma stabile negli anni (soprattutto durante la crisi), grazie a tutte le motivazioni sopra considerate.

[Alcune considerazioni molto schematiche su tale problema le troviamo in queste diapositive]

Riepilogando, abbiamo paesi come la Germania che sono costantemente in "acque tranquille" (per i motivi indicati) e paesi più deboli, tipo i PIIGS, che invece dall'entrata nell'Euro sono in costante deficit di CA, in costante indebitamento privato (soprattutto verso l'estero) e contemporaneamente vantano una diminuzione contestuale del debito pubblico, dell'inflazione e dello spread (almeno fino alla crisi).

Come sono possibili tanti dati contrastanti?

Semplice: l'Euro ha inizialmente dato l'illusione che tutti i paesi stessero andando nella "direzione giusta" della convergenza e uniformità, in realtà non avendo "curato" le diseguaglianze intrinseche all'interno dei Membri ha solamente permesso ai paesi che erano già in deficit verso l'estero (e che a differenza della Germania non hanno tratto vantaggio dall'entrata) di indebitarsi ad un prezzo minore, poiché in un quadro di aspettative ottimistiche, come allora, anche i tassi di interesse (spread) si erano in parte avvicinati. Come conseguenza di ciò, il SETTORE PUBBLICO di tali Stati ha potuto MIGLIORARE il proprio bilancio perché pagava minori interessi sui titoli di debito pubblico (come in Spagna e in Grecia, oppure indebitarsi a prezzo minore come in Italia e Portogallo; qui), e il SETTORE PRIVATO ha potuto INDEBITARSI VERSO L'ESTERO a tassi più bassi, perché non dimentichiamo che la Germania aveva ampie disponibilità di risparmi da dare in prestito (abbiamo già spiegato il perché prima) quindi anche ad un prezzo più conveniente rispetto a quello nostrano.

[Questo processo è ben delineato dal "ciclo di Frenkel", riguardo gli squilibri tra paesi forti e paesi deboli, o come viene detto alcune volte, tra centro e periferia, disequilibri che creano inevitabili crisi che riportano a galla le evidenti asimmetrie e contraddizioni in un ciclo continuo e ben riscontrabile anche in altre realtà]

DETTO CIO', RIPETO ANCORA CHE NON VUOL DIRE CHE L'UNICA SOLUZIONE E' L'USCITA IMMEDIATA DALL'EURO: O LO SI MIGLIORA CON RIFORMA STRUTTURALI UNIFORMI, ALTRIMENTI TANTO VALE USCIRE (COME DICE IL PREMIO NOBEL STIGLITZ), PERCHE' UNA SITUAZIONE DEL GENERE NON PUO' CHE PORTARE A CONTINUI SHOCK ASIMETTRICI E/O STAGNAZIONE DEI PAESI PIU' "DEBOLI"































giovedì 10 gennaio 2013

Euro o non Euro? PARTE I

Dopo la persistente recessione (e i vari problemi di bilancio pubblico) e dopo le varie "uscite" di Berlusconi e di alcuni membri del M5S, è decisamente ora di capire qualcosa in più sull'utilità/necessità di valutare l'ipotesi di uscita dall'Euro.
L'argomento in questione è estremamente tecnico e richiederebbe moltissimi riferimenti a rapporti e ricerche, che anno dopo anno cercano in qualche modo di dare un senso ad un contesto economico europeo completamente "sballato" e divergente al suo interno, per cui l'ideale è procedere senza complicarsi la vita con troppi paroloni e in modo più semplificato possibile.

Alcune premesse di base:
  1. Il tasso di cambio è il prezzo di una valuta espresso nei termini di un'altra moneta, di solito rappresentato "certo per incerto", cioè il prezzo in valuta estera di una unità di valuta nazionale (per es. il cambio EUR/USD: quanti dollari per comprare 1 euro?). Questo è il tasso di cambio nominale e se non è indicato diversamente (reale, effettivo o altro) ci si riferisce implicitamente a questo concetto.

  2. Il fondamento vero e proprio dell'ipotesi di un'Europa unita deriva dal Rapporto Werner, ma l'idea economica dell'Euro si riscontra nella Teoria delle Aree Valutarie Ottimali (Mundell 1961), che in sostanza sostiene che se due o più paesi volessero adottare cambi fissi (o pressoché fissi) tra le loro monete, magari perché commerciano molto tra loro, per avere un buon grado di successo devono avere una completa (o quasi) "mobilità dei fattori produttivi"; questa espressione indica che lavoro e capitali siano liberi di spostarsi praticamente senza ostacoli/limiti: per esempio se io sono un operaio, e oggi la mia fabbrica chiude, posso ipoteticamente cercare e trovare lavoro in Germania senza particolari impedimenti o difficoltà nella gestione della mia posizione lavorativa (per es. per i contributi), delle formalità burocratiche (permessi vari) e nel giro di pochissimi giorni; allo stesso modo se io domani ritengo che il mio capitale di centomila euro sarebbe più produttivo investirlo in obbligazioni della Siemens piuttosto che di Unicredit, allora dovrei poter completare l'operazione in un lasso di tempo brevissimo, quantomeno infragiornaliero.

  3. Come ho anticipato, questa teoria sta alla base dell'Euro ma non descrive l'attuale condizione di quest'ultimo, che è in realtà una unione monetaria vera e propria.
    Una precisazione molto importante: un' Area Valutaria Ottimale E' DIVERSA da un' unione monetaria; nella prima ognuno tiene la sua moneta mentre nella seconda la moneta è unica (vedi Euro). Lo stesso Mundell, nel 1997, ha precisato tale distinzione: per cui un'AVO si crea quando due o più paesi fissano il tasso di cambio in modo fisso o con una stretta banda di oscillazione, mantenendo ognuno la propria Banca Centrale (pur con qualche restrizione nella politica monetaria) e potendo uscirne in qualunque momento; un' unione monetaria richiede invece una stessa moneta, stessa Banca Centrale e possibilmente una contestuale unione politica.
    Detto questo non dimentichiamoci il pre-requisito FONDAMENTALE alla base di entrambi i concetti stessi, cioè l'ampia mobilità dei fattori produttivi.

  4. L'Euro NON E' una Unione Monetaria (nel senso che lo è formalmente, ma non ha i requisiti per definirsi tale), né i precedenti sistemi di cambio simili furono Aree Valutarie Ottimali (SME per esempio). Questo è un dato di fatto riscontrabile nella realtà, infatti l'Euro è costituito da paesi con enormi squilibri interni e reciproci, che al primo shock esterno (vedasi crisi finanziaria americana) sono stati definitivamente portati a galla; in un' unione monetaria non dovrebbero esistere marcate differenze tra i singoli Stati (e men che meno all'interno degli Stati stessi, come in Italia), di modo che al primo shock l'economia dell'unione si riequilibri pressoché automaticamente.
    Questo concetto è pienamente accettato e sottolineato perfino dagli organi esecutivi e legislativi europei, mentre ciò che è veramente motivo di discussione sono i rimedi da porre in atto in relazione a questo problema: alcuni chiedono maggiore integrazione politica e fiscale, altri l'uscita definitiva.
    Fra l'altro queste cose erano state già anticipate dal Premio Nobel Kaldor nel 1971.

  5. Immaginiamo due territori che hanno tasse diverse, contratti di lavoro diversi, spesa pubblica diversa e così via (come praticamente ogni paese del mondo), se da un giorno all'altro usano la stessa moneta senza apportare alcun cambiamento strutturale uniforme, come può una moneta unica cambiare qualcosa (ricordiamoci che si tratta solo di uno strumento di pagamento)?
    L'unica risposta (irrazionale) che viene da dare è che le crisi e gli squilibri che derivano da tale applicazione potrebbero dare un carattere di urgenza alle riforme tanto "agognate", ma non ha comunque senso invertire i due processi! Vuol dire farsi male da soli! Stiamo parlando di processi complicati che non riguardano solo il valore della moneta rispetto al dollaro e così via.
    Del resto basta vedere come la politica monetaria unica (unica perché gestita da una sola banca, la BCE) non abbia risolto gli squilibri tra gli Stati, pur avendo agito in senso tutto sommato espansivo (soprattutto sotto la presidenza Draghi) e quindi favorevole agli Stati. Questo per ricordare che la moneta è solo uno strumento nominale, non può causare cambiamenti strutturali solo perché è in dotazione a tanti paesi ed è gestita da una sola Banca Centrale.

Una volta compreso questo, le premesse di base ci sono tutte.
Abbiamo inoltre capito che il tema di scontro principale è "più Euro" o "meno Euro". 

Cosa fare?
La frase "attuare riforme strutturali", nonostante normalmente sia usata a caso senza avere la minima idea di come agire (non tanto di dove agire), in questo caso ci è utile; infatti se vogliamo/crediamo che sia necessario continuare sulla strada dell'unione monetaria (effettiva), l'unica soluzione è l'emanazione di Direttive e Regolamenti europei (validi solo verso gli stati dell'Unione Economica e Monetaria europea, d'ora in poi EMU) che provvedano ad uniformare il mercato del lavoro, la previdenza, la TASSAZIONE, il sistema finanziario, il sistema creditizio-bancario, il sistema giuridico, la burocrazia (soprattutto per quanto riguarda uniformità dei tempi), l'istruzione e le POLITICHE FISCALI (cioè come viene speso il bilancio pubblico) che saranno accentrate e gestite direttamente dall'Unione oppure solo uniformate. 
Probabilmente ne ho dimenticato qualcuno, comunque alcuni esempi chiariranno tale necessità di uniformità: se le tasse sulle imprese in Irlanda sono del 12,5% è ovvio che molte imprese sposteranno lì la sede sociale, determinando minori entrate fiscali; se lo Stato dà notevoli incentivi a chi apre un'attività spendendo una % notevole del bilancio pubblico, mentre in altri paesi non succede, allora ci potrà essere uno spostamento continuo negli anni verso tale nazione e costante impegno di spesa maggiore che in altri paesi.
In sostanza in un' Unione monetaria le regioni e gli Stati stessi non sono in concorrenza totale tra loro, ma cooperano per garantire un livello standard su tutto il territorio, attuando una "competizione" più blanda su altri aspetti (per esempio sulla maggiore qualità o formazione tra le università più prestigiose o sulla specializzazione in determinati segmenti lavorativi ecc).
In realtà altri autori hanno ipotizzato la necessità di ulteriori similitudini in campo economico per poter prendere in considerazione l'idea di unirsi (tra cui integrazione fiscale, sopra citato), però, a parte una in particolare (diversificazione produttiva), possiamo immaginare che il processo di convergenza-uniformità nelle materie sopra indicate sia già un più che sufficiente presupposto.

Il problema è che un processo del genere richiede qualche anno per avere risultati di convergenza robusta, inoltre cosa succederebbe se per qualche motivo ci fossero altre crisi di vasta portata? Sarebbe giusto chiedere ai paesi più deboli come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia ulteriori sforzi e anni di recessione nell'intento di preservare a tutti i costi l'Euro? Ma soprattutto è stato ed è giusto chiederlo tuttora, dopo due anni dallo scoppio del panico riguardo ai debiti pubblici dei PIIGS? Infine sarebbe pensabile attuare un processo così complicato, che richiede continue e attente riforme di grande tecnicismo, se ad oggi non ci si riesce ad accordare nemmeno su Eurobond e Unione Bancaria?

Dall'altra parte hai la prospettiva di una uscita, non contemplata nei Trattati istitutivi, che spaventa molti cittadini e che richiede un forte consenso politico sull'argomento (che oggi non c'è), per di più non essendo stato votata l'adesione all'Euro non è stato fatto un approfondimento particolare sull'argomento, ma ci si è semplicemente affidati al consenso dominante che diceva che l'Euro è buono perché ci protegge dall'inflazione, perché ha più valore della lira e favorisce gli scambi intra-europei (argomenti abbastanza scialbi).
Inoltre, una volta usciti noi, chi obbligherebbe Spagna, Grecia e Portogallo a restare? (E del resto perché dovrebbero).

Purtroppo, date le circostanze, l'unica non-soluzione sarebbe un referendum consultivo che dia modo al Governo di capire qual'è l'opinione maggioritaria sull'argomento. E' evidente che questo referendum deve avvenire previa una campagna di grande portata (molti mesi prima del voto), dove si dibatta la questione tra sostenitori e contrari, dando  le basi economiche tali da capirci qualcosa, per quanto possibile.
Ovviamente un argomento così complicato e che non ha neanche una spiegazione univoca, non potrà che rimanere comunque oscuro e incompreso, per cui prevarrà il "voto di pancia" di chi sarà preoccupato della svalutazione, del default o di qualunque altro spauracchio.

E' normale che non ci sia né la voglia, né il tempo, né le basi per discuterne.

Molto probabilmente si andrà avanti con la situazione attuale, con miglioramenti in termini di maggiore uniformità a poco a poco, fino alla prossima crisi o recessione (Luca Ricolfi a metà 2012 ne ipotizzava una all'incirca nel 2017, ma senza dover fare particolari previsioni si può ipotizzare semplicemente nella prossima fase negativa del ciclo economico), in cui sarà dura convincere nuovamente qualcuno della necessità di tagliare e fare sacrifici.








martedì 8 gennaio 2013

Il Senato e le prossime elezioni politiche...

Un recente articolo del Sole24ore riporta i risultati di un sondaggio pre-elettorale effettuato e le conseguenti simulazioni di voto, con particolare attenzione alle Regioni-chiave.
Non è la prima volta che veniamo terrorizzati dalla possibilità di ritrovarci con un Governo con una maggioranza instabile (o mancante addirittura) al Senato, anche considerando il fatto che ciò è già accaduto con l'Unione di Prodi, quando la maggioranza al Senato era di un solo senatore.

Perché ci si preoccupa così tanto del Senato?
Per il semplice fatto che nella Costituzione viene espressamente imposto che sia eletto su base regionale (art. 57), per cui, pur applicandosi sempre il Porcellum/Legge Calderoli, il premio di maggioranza previsto da tale legge viene attribuito Regione per Regione, determinando grande incertezza nel caso di un contesto politico frammentato, come è attualmente.
In sintesi: alla Camera chi prende più voti ha un premio di maggioranza del 55% (e quindi controlla in totale minimo 340 seggi, ovvero il 55% dei 618 seggi nazionali), mentre al Senato questo calcolo viene fatto Regione per Regione (per esempio chi vincerà in Piemonte avrà automaticamente il 55% dei 22 "probabili" seggi presenti, cioè 12 seggi); i seggi stimati dall'articolo sembrano essere corrispondenti e aggiornati rispetto a quelli utilizzati per le scorse elezioni.
Sempre l'art. 57 della Costituzione ci dice che nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a 7 (tranne la Valle d'Aosta che ne ha uno e il Molise che ne ha due); i seggi (309, perché gli altri sei appartengono alla circoscrizione Estero) sono poi distribuiti tra le Regioni in proporzione alla popolazione.
A questo punto il problema sollevato dall'articolo è questo: se PDL e Lega si presentano assieme e se i sondaggi pre-elettorali saranno simili ai risultati post voto, allora anche solo la perdita in Lombardia e Campania (o Lombardia e Veneto) da parte della coalizione PD-SEL, per via del nuovo asse di centro-destra, sarebbe pressoché fatale.

Ecco i numeri, presi sia dall'articolo in questione sia da questo (visto che riprende anche i seggi assegnati nelle precedenti elezioni): stiamo parlando di 309 seggi nazionali, di cui si ipotizza che almeno 108/9 (dipende dalla ripartizione dei seggi) siano pressoché in mano a PD-SEL (ovvero il 55% in Friuli-Liguria-Emilia-Toscana-Umbria-Marche-Lazio-Abruzzo-Piemonte-Puglia-Basilicata-Calabria-Sardegna-Trentino-Molise-Valle d'Aosta).
Lombardia, Veneto, Sicilia e Campania sono invece quelle "indecise"; la Sicilia sembra più propensa ad una vittoria del PDL, Lombardia e Veneto sembrano in bilico e la Campania vede una leggera predominanza del PD-SEL.

A questo punto, IPOTIZZANDO che il PD-SEL vinca nelle 16 Regioni sopra elencate, IPOTIZZANDO che dalla circoscrizione Estero ne arrivino tre (ovvero la metà), IPOTIZZANDO che le stime di vote riportate per Lombardia-Campania-Sicilia siano più o meno coerenti e IPOTIZZANDO che in caso di perdita prenda solo una parte dei seggi restanti (visto che non ci sono solo due partiti) gli scenari che SEMBRANO più probabili sono questi:

  1. se perdesse in Sicilia, in Lombardia e in Veneto, ma vincesse in Campania non avrebbe la maggioranza;
  2. se perdesse in Sicilia ma vincesse in Lombardia, Veneto e Campania avrebbe una buona maggioranza;
  3. se perdesse in Sicilia e Veneto, ma vincesse in Campania e Lombardia avrebbe circa 155-157 seggi, ovvero una maggioranza risicata o di poco inesistente;
  4. se perdesse in Sicilia e Lombardia, ma vincesse in Campania e Veneto non avrebbe la maggioranza;

E ora un po' di "sporchi calcoli politici"
E' chiaro che in una situazione post voto in cui il peso di Monti sia comunque a due cifre, il suo appoggio sarebbe determinante per evitare nuove elezioni o altri governi tecnici ecc ecc, per cui nel caso si ritengano situazioni post voto del primo, terzo e quarto caso, SE pensiamo che i voti ai partiti minori siano "sprecati/inutili" e SE riteniamo Grillo un'alternativa poco convincente, PRAGMATICAMENTE parlando, l'unico dubbio che si potrebbe presentare ad un elettore del centro-SX è se votare PD oppure SEL all'interno della coalizione di SX.
Dico questo (scartando Monti) perché tanto è comunque quasi sicuro che Monti non abbia la maggioranza, ma dalla sue dichiarazioni sembra possa intendersi che possa dare una sorta di "appoggio esterno" ad un Governo di questo tipo, almeno su alcune tematiche.
Ovviamente il fatto di essere stufi delle solite facce e di ritenere Monti più sveglio e capace di Bersani-Vendola (come probabilmente è) porterà ad esprimere il proprio consenso verso Monti, ma non è così problematico come sembra perché se comunque ci si trova nella situazione 1,3 o 4, il contesto sarebbe comunque instabile e l'appoggio di Monti necessario.

Tutto dipenderà dall'evolversi della situazione, in ogni caso i due fattori determinanti saranno la tenuta della coalizione PDL-Lega fino al voto e la percentuale di elettori che voterà Grillo, Ingroia ecc.

Quanto costano le nostre "missioni internazionali"?

Il 28 dicembre è stato presentato al Senato il D.D.L. numero 3653 "recante la proroga delle missioni internazionali...ecc ecc", dove in sostanza viene chiesto l'autorizzazione sulle spese ritenute necessarie nei vari scenari internazionali (non solo di guerra), cooperazione allo sviluppo, spese per il personale e altre voci varie.

Innanzitutto confrontando le autorizzazioni di spesa richieste per il 2013 con quelle dell'anno precedente si nota una netta diminuzione di tutti i capitoli, anche perché il periodo "coperto" dal D.D.L. in discussione va dal 1 gennaio 2013 al 30 settembre 2013, rispetto al precedente periodo 1 gen - 31 dic 2012 (è già successo in precedenza che si optasse a favore di coperture di spesa semestrali o addirittura bimensili, invece che annuali).
In relazione a ciò l'elenco delle previsioni di spesa (riguardanti le spese per le varie missioni, di cui all'art.1) comprende valori decisamente inferiori al decreto per il 2012, sinteticamente:

  • circa 427 milioni (d'ora in poi mln) per la missione ISAF riguardante la nostra presenza in Afghanistan a fianco dell'ONU e della NATO, nonché la missione EUPOL che ci vede protagonisti assieme all'UE nell'addestramento della polizia locale afgana; 
  • circa 119 mln per la missione UNIFIL, dove siamo presenti a fianco dell'ONU come "supervisori" (non come invasori); 
  • circa 52 mln per varie missioni che nel complesso riguardano la nostra presenza in Kosovo (in totale quattro diverse missioni che riguardano il primo intervento in Kosovo, la costruzione di uno stato di diritto e di una maggiore sicurezza pubblica, anche tramite l'addestramento delle forze di polizia e militari kosovare); 
  • circa 224 mila euro per la missione in Bosnia-Erzegovina (la missione ALTHEA, sotto il controllo dell'UE); 
  • circa 14 mln per missioni navali NATO nel Mediterraneo (anti-terrorismo e contro il traffico di armi); 
  • circa 847 mila euro per la missione in Hebron (presenza di osservatori internazionali, di tipo civile); 
  • circa 91 mila euro per la presenza, sempre di tipo civile, a Rafah; 
  • circa 194 mila euro per il personale militare presente nella missione dell'Unione Africana nel Darfur; 
  • circa 199 mila euro per la missione a Cipro; 
  • circa 179 mila euro per l'assistenza alle forze armate albanesi; circa 34 mln per le missioni di contrasto alla pirateria; 
  • circa 15 mln per le spese riguardanti il personale militare negli EAU, Bahrain e Qatar in relazione alla guerra in Afghanistan; 
  • circa 6,9 mln per il supporto anti-pirateria e l'assistenza nell'Oceano Indiano; circa 7,5 mln per assistenza e formazione del personale in Libia; 
  • circa 285 mila euro per la missione di vigilanza UE in Georgia; 
  • circa 128 mila euro per la missione in Sud Sudan; 
  • circa 1,9 mln per la partecipazione in Mali e nel Sahel Niger; 
  • circa 144 mila euro per la stipulazione dei contratti di assicurazione e di trasporto di durata annuale e per la realizzazione di infrastrutture relativi alle missioni internazionali;
  • circa 6,5 mln per eventuali interventi essenziali a favore della popolazione locale (per quasi tutte le missioni);
  • circa 4,3 mln per la cooperazione delle forze di polizia italiane in Albania;
  • circa 1,2 mln per la partecipazione di personale della polizia italiana alle missioni in Kosovo;
  • circa 96 mila euro per la partecipazione di personale della polizia italiana alla missione EUPOL in Palestina;
  • circa 851 mila euro per la partecipazione di personale della GdF alla missione ISAF; altri 264 mila per la presenza nella missione in Kosovo e altri 4,6 mln per la partecipazione in Libia (sempre al riguardo della Guardia di Finanza);
  • circa 20 mila euro per la presenza di un magistrato nella missione europea per valutare lo stato di diritto in Iraq;
  • circa 10 mln per il mantenimento del dispositivo info-operativo dell'agenzia AISE per la protezione del personale impegnato nelle varie missioni;
  • circa 812 mila euro per l'impiego di personale della Croce Rossa nelle missioni ISAF e negli EAU;
  • infine tra le "varie ed eventuali" troviamo la cessione a titolo gratuito di effetti di vestiario e igiene alle forze armate libiche; la cessione gratuita di effetti di vestiario, di 3 veicoli blindati leggeri e di 10 semoventi M109L alla Repubblica di Gibuti per una spesa di 1,1 mln (la "donazione" a Gibuti riguarda quasi sicuramente il miglioramento del programma anti-pirateria navale a favore delle nazioni africane interessate); la cessione a titolo gratuito di 500 veicoli M113 al Pakistan; la cessione gratuita all'Eritrea di materiale ferroviario dichiarato fuori servizio;
La spesa maggiore, tra tutte le missioni in corso, la assorbe ovviamente la missione ISAF (la guerra in Afghanistan, comprensiva della missione EUPOL Afghanistan), per via della maggiore presenza di truppe e per i maggiori costi in termini di rifornimenti e logistica, guerra che quest'anno assorbirà 427 mln (almeno per i primi 9 nove mesi del 2013), ma che già sin dall'inizio era stata progressivamente più costosa, mobilitando infatti nel 2012 748 mln, nel 2011 780 mln, nel 2010 670 mln, nel 2009 540 mln e così via.
Ovviamente a queste non ho sommato le spese relative agli interventi di cooperazione allo sviluppo poiché sono comunque svincolate dalla nostra presenza civile o militare.

[Ovviamente il D.L. in questione deve ancora essere approvato, per cui è possibile che vi siano ulteriori modifiche durante la discussione in Parlamento]