sabato 23 febbraio 2013

Rimettiamo in moto l'economia, 2° parte

Come ogni buon piano, per rimettere in moto l'Italia bisogna effettuare anche grossi investimenti oltre alle modifiche alla spesa pubblica e alla tassazione precedentemente proposte.
Ma non avendo più una lira di nostro, dobbiamo rivolgerci alle opportunità che ci offrono i vari fondi europei destinati ad alcuni paesi dell'UE (che in sostanza servono a renderci un po' più simile economicamente e soprattutto strutturalmente, alla Germania).

Come funziona?
A livello europeo sono messi a disposizione determinati tipi di Fondi a seconda delle necessità:
- FESR (Fondo Europeo per lo sviluppo) sostiene programmi in materia di sviluppo regionale, di potenziamento della competitività, di investimenti nella ricerca e nello sviluppo sostenibile;
- FSE (Fondo Sociale Europeo) si concentra sull’inclusione sociale e su un accesso al mercato del lavoro che sia privo di discriminazioni di genere;
- Fondo di Coesione contribuisce a realizzare interventi nei settori dell’ambiente e delle reti di trasporto trans-europee, si attiva soltanto per Stati membri con un reddito nazionale lordo inferiore al 90% della media comunitaria (riguarda quindi i nuovi Stati membri, la Grecia e il Portogallo, ma non l’Italia).

A livello nazionale il Governo aveva a disposizione le risorse che destinava ai Fondi per le Aree Sottosviluppate (FAS), che dal 2011 si chiama Fondo per lo Sviluppo e la Coesione (FSC) e che serve a realizzare gli interventi di perequazione tra le varie aree del paese affinché raggiungano tutte lo stesso livello economico-sociale, come prescritto dalla Costituzione (art. 119).

Il solito problema è che a livello nazionale i soldi dobbiamo sborsarli noi, allo stesso modo vale lo stesso dilemma a livello europeo perché si tratta di co-finanziamenti (quindi con una percentuale più o meno variabile di partecipazione italiana).

E di nuovo tutto tace perché mancano i soldi.

Cosa si può fare però?
Sembra una cosa da poco, ma come ci indicava il Sole24Ore pochi giorni fa', se solo si riuscisse a finire le opere pubbliche già in costruzione e per cui sono per di più già stanziati i necessari fondi (semplicemente la burocrazia li blocca), questo sarebbe già un notevole passo avanti e una altrettanto notevole spinta alla crescita infrastrutturale nostrana. E ce lo diceva anche il CIPE (qui) e il Dipartimento del Tesoro (qui) seppure col Governo Monti bisogna ammettere che sono state apportate importanti novità soprattutto in materia di tempi (come indica l'articolo).
Oltre a tempi più ridotti e modalità di decisione più efficaci (entrambe in parte attutate da Monti), l'unico consiglio veramente determinante e non programmabile dallo Stato riguarda l'abnorme e costante contenzioso che si sviluppa non appena si poggia il primo mattone dell'opera; in questo caso l'unica soluzione è garantire tempi di decisione ridotti ai tribunali (in questo caso il TAR e il Consiglio di Stato) tramite un implementazione delle piante organiche di tali tribunali amministrativi (e soprattutto grande formazione dei giudici amministrativi, data la elevatissima complessità della materia).

Inoltre bisogna ricordare che la legge di stabilità da poco approvata ci torna utile, perché essa determina le risorse stanziate per attuare i programmi comunitari co-finanziati (ossia la quota nazionale, che per il 2013 è di 6,8 mld effettivi), nonché le risorse del FSC nazionale (che per il 2013 è di 5,5 mld).

Fortunatamente si può quindi constatare una minima volontà di spesa in questo campo. E' indubbio che stiamo parlando di risorse insufficienti visto che dobbiamo portare il Sud al livello del Nord, e il Nord al livello di Berlino, però è già un inizio e soprattutto se combinata con la riforma fiscale-industriale del post precedente potrebbe quantomeno dare un po' di respiro all'economia.












mercoledì 20 febbraio 2013

Rimettiamo in moto l'economia

Ora che si è avuto il tempo di visionare i vari documenti e schede di letture vediamo se ci sono margini di manovra ulteriori per il 2013, così da riutilizzare queste spese per altri fini.

Ovviamente ce ne sono, ma le voci più rilevanti le troviamo nelle ultime due tabelle allegate C ed E (si veda il post precedente per i dati).

Ecco dove agire (nel 2013):
  • 71,5 mln alle università non statali;
  • 137,4 mln di sostegno all'editoria;
  • 160 mln alla Regione Calabria;
  • 696 mln per le unità navali classe FREMM;
  • 1075 mln per gli F-35;
  • 396 mln dal Fondo di garanzia per le piccole-medie imprese (d'ora in poi PMI);
  • 1962 mln di contributo conto impianti alle Ferrovie dello Stato (d'ora in poi FdS);
  • 400 mln per la TAV; altri 200 mln come compensazioni per le FdS e per maggiori interventi da attuare in relazione alla TAV;
In totale si parla di 5,067 mld, una cifra considerevole anche se ovviamente non si può parlare di un azzeramento totale di queste voci a favore di altre.

Facciamo un attimo un passo indietro: riutilizzare qualche miliardo per velocizzare la lenta ripresa dell'economia è un ottimo obiettivo, solo che nel caso italiano andrebbe combinato con un cambiamento nella tassazione e nella struttura industriale. Altrimenti ne rimarrà solo un momentaneo aumento di "reddito" nazionale, mentre i problemi di tassazione attuali saranno sempre presenti.

Spostandoci momentaneamente dal lato delle entrate per esaminare questo problema (1 - 2 documenti ufficiali; 1 - 2 rielaborazioni).

Cambiare la tassazione per renderla più efficiente + favorire la crescita e la specializzazione delle imprese

Cosa fare? 
Piuttosto che agire sulle singole centinaia di tasse presenti nei vari livelli di Governo, concentriamoci sulle più importanti: IRPEF e IRES (L'IRAP la tralascio perché correlata con la spesa sanitaria, quindi meglio non considerarla per ora).
Nella situazione attuale circa 9 mld di IRPEF (sui 149 totali) è pagata da lavoratori autonomi, ditte individuali e società di persone. Altri 37 mld di IRES sono pagati dalle società di capitali (S.r.l. e S.p.A. le più conosciute) e in generale da qualunque impresa non appartenente al gruppo precedente (cioè società di persone).
Normalmente le imprese che giuridicamente sono società di persone o ditte individuali sono quelle più piccole (fatturato ridotto in media) e meno internazionalizzate.
Quello che dobbiamo fare è incentivare queste PMI e ditte individuali ad ingrandirsi, per raggiungere un livello di medio-grande impresa (non squisitamente multinazionale però), per cui si parla di un minimo di 250 dipendenti e di un fatturato di svariate decine di milioni di euro (in media).

Perché questo? 
Solo per permettere a queste imprese di usufruire di economie di scala (minori costi all'aumentare della produzione), di essere più solide nel caso di crisi, di assorbire maggiore occupazione qualificata, di aver bisogno di maggiori investimenti in Ricerca e Sviluppo (d'ora in poi R&S), di avere maggiore potere di contrattazione con le banche e con i mercati finanziari.
Allo stesso modo non ci interessa che tale azienda diventi un colosso multinazionale, perché abbiamo bisogno di un radicamento sul territorio più stretto possibile e perché oltre una certa dimensione potrebbe essere perfino deleterio in termini di posizione dominante sul mercato interno (questo in media, in realtà ci sono anche multinazionali come la Ferrero che mantengono un ottimo volontario radicamento territoriale nonostante la loro espansione mondiale).

Come si fa a convincerle ad ingrandirsi?
Tralasciamo le ditte individuali e ovviamente i lavoratori autonomi. Per quanto riguarda le imprese dobbiamo assoggettarle tutte all'IRES (anche le società di persone), così quando dobbiamo intervenire sulla tassazione non dobbiamo preoccuparci se eventuali benefici vadano più agli altri soggetti IRPEF (più che altro lavoratori dipendenti e pensionati) o alle società di persone.
L'attuale aliquota IRES è del 27,5%. Se ipotizziamo che 6 dei 9 mld IRPEF precedentemente indicati siano le imposte pagate dalle società di persone, possiamo ipotizzare che rendendo tutte le imprese soggette all'IRES, il relativo gettito IRES passi a circa 40 mld annui (per fare cifra tonda e considerando che l'IRPEF ha 5 scaglioni di aliquote).
Riepiloghiamo l'ipotesi di base: se tutte le società (di persone e di capitali) sono soggette all'IRES (27,5%) le relative entrate dovrebbe essere di circa 40 mld. Per cui un punto percentuale in meno o in più di IRES determina maggiori o minori entrate per 1,45 mld circa.
Detto questo, un aliquota unica non è conveniente per il nostro progetto. Ci saranno tre aliquote: la prima varrà per le imprese fino a 10 mln di ricavi di vendita beni o servizi (sarà del 27,5%), la seconda varrà per le imprese fino a 700 mln (sarà del 25%); la terza oltre i 700 (sarà del 28%). 
Ovviamente per un cambiamento del genere sarà necessario consultare la Ragioneria Generale dello Stato, per capire se in questo modo le entrate rimangono più o meno invariate, però l'intento è esattamente quello di non infierire troppo sulle imprese più piccole (anche perché in Italia sono la maggioranza) incentivando il passaggio ad una dimensione più rilevante e più conveniente fiscalmente; una volta raggiunta la seconda fascia, questa è molto ampia, per cui le imprese che arriveranno ai 700 milioni saranno ormai abbastanza grosse da non doversi preoccupare esclusivamente di fattori fiscali ma valuteranno molto quote di mercato e gusti  dei consumatori.

Una volta raggiunti questi obiettivi, verrà indirettamente coronato anche l'obiettivo di una maggiore internazionalizzazione (visto l'assetto dimensionale cercheranno nuovi mercati di sbocco), nonché tutti i vantaggi sopraelencati per l'economia nazionale e l'occupazione.

E ora ritorniamo alle spese della legge di stabilità che avevamo precedentemente indicato.

Data la situazione di necessità potremmo anche pensare di azzerare gli 1,7 mld destinati agli F-35 e alle FREMM, ridurre gli stanziamenti a favore della Regione Calabria, delle università non statali, all'editoria, alle FdS (solo dai contributi TAV però), nonché reindirizzare le risorse del Fondo Garanzia PMI.
Fatto questo dobbiamo fare in modo che tali importi vadano a coprire parte dei crediti dello Stato verso le aziende (di cui spesso ci si lamenta) così da attuare materialmente la direttiva europea sul pagamento dei fornitori a 30 giorni (questa sarebbe una bella botta di liquidità molto utile).
Dobbiamo considerare che alcuni voci di spesa non sono state citate perché non erano da ritoccare, e alcune di queste riguardavano argomenti che non fanno altro che coadiuvare l'obiettivo che ci siamo posti (per esempio crediti all'esportazione, fondi per la ricerca, fondi per opere strategiche ecc...).

Non ho proposto di convogliare queste somme a favore della riduzione del cuneo fiscale per il semplice fatto che è ancora troppo presto per assistere ad una ripresa delle assunzioni degna di nota, per cui anche riducendo il costo del lavoro è probabile che si raggiungano effetti indiretti minori rispetto all'immediato pagamento dei crediti e alle varie agevolazioni previste.
Inoltre per essere veramente determinante questa riduzione del cuneo fiscale dovrebbe essere molto consistente (come sosteneva anche Luca Ricolfi), altrimenti non ci si assume il "carico" di un dipendente (compreso eventuali "grane" legali e fiscali) in più in un momento di stagnazione per un misero risparmio; cioè non è un rapporto causa-effetto immediato, per cui appena rendi più conveniente assumere le imprese ci si buttano a capofitto (questo è un ragionamento molto più liberista).

In tal modo in pochi mesi si può pensare ad un cambio di rotta a favore di una ripresa più veloce di quanto si pensasse per il 2013 (che tutto sommato si prevedeva stagnante o in leggerissima ripresa).

E' un piano modesto...per risorse modeste, appunto.
















Le spese "movimentate" dalla Legge di Stabilità

Esaminiamo punto per punto tutte le variazioni di spesa (solo le spese per ora) movimentate dalla Legge di Stabilità, così da vedere se è possibile effettuare alcuni interventi correttivi successivi.

Qui troviamo la legge pubblicata. Qui troviamo una scheda di lettura abbastanza approfondita. Qui troviamo i vari allegati alla legge.

Innanzitutto nell'allegato 1 sono fissati i livelli massimi di ricorso al mercato (cioè emissione di Titoli di Stato) che ammontano a 240 mld per il 2013 (limite massimo considerando eventuali ristrutturazioni, rimborsi e 4 mld ulteriori di indebitamento estero). Invece il saldo netto da finanziare (cioè entrate meno spese, senza considerare prestiti e rimborsi) è stabilito in 6,6 mld in termini di competenza al netto di 6,2 mld di regolazioni debitorie

Nell'allegato 2 sono indicati gli adeguamenti e gli importi da corrispondere in attuazione dell'istituzione presso l'INPS della "Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali" per gestire le pensioni sociali (cosa sono e come sono cambiate), rivalutare gli assegni di invalidità, gestire e rivalutare le quote contributive destinate al Fondo Pensione Lavoratori Dipendenti, all' ENPALS, alla gestione speciale minatori, alla gestione EX-INPDAP, alla gestione per i coltivatori diretti/mezzadri e coloni e alla gestione separata lavoratori autonomi, per complessivi 21 mld nel 2013.

Viene decisa la riduzione degli stanziamenti relativi ai programmi di spesa dei Ministeri (sia per competenza che per cassa) in attuazione di precedenti misure di legge. Si parla di 1,77 mld in meno nel 2013. Ci sarebbe da dire che l'obiettivo è mantenere spese effettivamente pagate pari a quelle di competenza dell'anno così da mantenere l'indebitamento netto in costante riduzione e dello stesso importo (cioè fare in modo che oltre a ridurre le spese, quelle da pagare materialmente nell'anno, sia che riguardino quest'anno o anni precedenti, in modo da uniformarsi alla differenza tra entrate e spese negli anni successivi).

Nell'elenco 2 è deciso che alcuni stanziamenti di spesa a favore del Ministero Economia e Finanze (d'ora in poi MEF) siano ridotti nel 2013-14-15 (tranne due); in particolare nel 2013 si tratta di una riduzione di:

  • 2700 euro dalle spese derivanti dal nuovo CCNL degli autoferrotranvieri; 
  • 300mila euro dal capitolo di spesa destinato alla contrazione di mutui con la Cassa Depositi e Prestiti (d'ora in poi CDP) per interventi infrastrutturali nelle aree depresse; 
  • 1,7 mln dagli eventuali oneri derivanti dalle operazioni di rinegoziazioni mutui; 
  • 6 mln da parte degli oneri derivanti da contratti di mutuo stipulati con la CDP in seguito ai fenomeni alluvionali di set-dic 1993; 
  • 500mila euro dagli oneri derivanti dai mutui contratti con la CDP per favorire interventi per le aree depresse nazionali; 
  • 300mila euro dai fondi per la stipulazione di mutui contratti con gli istituti di credito da parte dell'Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, per realizzare interventi strategici;
  • 275mila euro dagli oneri derivanti da operazioni di finanziamento in relazione a maggiori spese correnti a livello regionale a carico della Sanità;
  • 800mila euro dagli oneri derivanti dalla contrazione di mutui quindicennali con la CDP per risanare, ristrutturare e privatizzare il Banco di Napoli;
  • 110mila euro dagli stanziamenti per la formazione specialistica dei medici del SSN;
  • 1 mln dai maggiori fondi dati per la liquidazione dell' EFIM, da distribuire tra il liquidatore, aiuti ai dipendenti, operazioni di mutuo, aumenti di capitale, affitto o trasferimenti di società o parti di esse;
  • 20 mln dalle somme stanziate per il Fondo rotativo per la progettualità presso la CDP, per anticipare spese per studi e valutazioni su possibili interventi cofinanziati dall'UE;
  • 115mila euro dai fondi per le maggiori spese correnti dello Stato a favore del SSN per l'anno 1991, finanziate tramite prestiti della CDP;
  • 10 mln dal Fondo nazionale da ripartire tra le comunità montane;
  • 3 mln dagli oneri per i finanziamenti concessi dalla CDP in relazione ad interventi per l'edilizia scolastica;
  • 150mila euro dalle spese per interventi relativi alla superstrada Noce Rivello-Colla Maratea in Basilicata, nonché per gli oneri derivanti dalla contrazione di mutui autorizzata dallo Stato a favore della Regione Veneto per la risoluzione dei problemi di viabilità dell'area centrale veneta;
  • 300mila euro dal riutilizzo delle spese stanziate per l'ammortamento statale di mutui, per gli Enti Locali, per opere pubbliche urgenti;
  • 750mila euro dalle somme annue destinate agli oneri di un programma di opere di edilizia scolastica finalizzate all'eliminazione dei doppi turni e degli edifici impropri;
  • 950mila euro, di cui 700mila per il concorso dello Stato nei costi per opere di sistemazione e ammodernamento da parte delle Province (compreso la possibilità di contrarre mutui con la CDP, con oneri a carico dello Stato), e 250mila  per le spese di ammortamento mutui stipulati dalle Regioni per interventi di ristrutturazione edilizia, realizzazione di residenze per anziani e non autosufficienti e per l'ammodernamento tecnologico del patrimonio sanitario pubblico;
  • 300mila euro dagli oneri di ammortamento statale di mutui stipulati dagli Enti Locali con la CDP per finanziare progetti e opere di produzione, recupero o distribuzione del calore derivante da cogenerazione e l'utilizzo di energie rinnovabili;

...E tutto questo viene stabilito solo nei primi sette commi del primo articolo!

E' evidente che elencare le altre trecento disposizioni sarebbe pressoché uno spreco di tempo, soprattutto impossibile da leggere e valorizzare, per cui l'ideale è indicare direttamente dove agire all'interno dei vari stanziamenti citati da questa legge.














martedì 19 febbraio 2013

Spesa pubblica sì, ma documenti pubblici?

Ci eravamo riproposti di analizzare nei minimi dettagli le spese dello Stato attraverso i singoli capitoli di spesa, ma questa indagine è pressoché inutile poiché i dati forniti raggiungono un buon livello di specificità (solo in certi casi) però molte voci rimangono ancora aggregate assieme e non si capisce quale stanziamento finanzi quali obiettivo di preciso, e questo perfino per importi rilevanti (decide di miliardi anche).
Purtroppo è solo dal 2009-2010 che lo Stato ha tentato di dare maggiore trasparenza ai suoi processi contabili-decisionali, perciò l'approfondimento lascia a desiderare; un fatto tra tutti lo rende evidente: la Nota Integrativa (che per le aziende svolge la parte più importante in quanto informa voce per voce delle variazioni-composizione-valutazione) si limita a riportare in generale i vari obiettivi di ogni missione per i singoli Ministeri e CRA.
Al massimo si potrà riflettere su alcuni capitoli di spesa, quelli già sufficientemente descrittivi di per sé, ma non di più con gli strumenti attuali. Questo è un ostacolo notevole.

Dato che purtroppo la situazione è questa, l'unico modo per analizzare in modo quantomeno approfondito e descrittivo i capitoli di spesa è andare a considerare quelli movimentati tramite la Legge di Stabilità (d'ora in poi LdS), dove per lo meno troviamo il riferimento di legge e i relativi importi.


domenica 17 febbraio 2013

In pensione quando mi pare

I problemi del sistema pensionistico sono spesso evidenziati e in seguito alla riforma Fornero, che ha lasciato tutti scontenti, sarebbe il caso di capire cosa non va e come migliorarlo, quantomeno in termini generali.

Una semplice dubbio che mi sono posto:
sebbene la speranza di vita sia chiaramente aumentata nei paesi sviluppati (e sia in costante aumento) ha senso far lavorare qualcuno fino a 68-69 anni o addirittura oltre?

Da un punto di vista economico ha perfettamente senso, perché se a 70 anni hai davanti a te una probabilità di vita di altri vent'anni, trattandosi di un periodo lungo dovresti contribuire maggiormente (cioè lavorare di più per compensare il futuro "bengodi").
Dal punto di vista del bilancio pubblico ha ancora più senso richiedere uno sforzo di questo tipo, visto che altrimenti le prestazioni pensionistiche pagate dallo Stato saranno in costante crescita (244 mld nel 2011 solo le pensioni; 305 mld tutte le prestazioni pensionistiche e sociali), a fronte invece di contributi versati (212 mld di contributi effettivi, più altri 4 mld di contributi figurativi, nel 2011) che garantiscono la copertura finanziaria solo di un certo periodo.

Il problema in questo caso è quasi socio-sanitario, perché è improbabile che oltre i 65 anni tutte le persone mantengano la stessa lucidità e capacità di svolgimento del proprio lavoro, basti pensare alla differenza (in media) tra un 66enne avvocato e un 66enne magazziniere. 
E' abbastanza evidente che la soluzione migliore sarebbe lasciare una scelta: se ce la fai o hai bisogno di soldi oppure ami il tuo lavoro, superata una certa età (66 anni per esempio) puoi liberamente continuare avendo la possibilità di ritirarti in qualunque momento successivo a tale età; viceversa vai in pensione.
Il solito dilemma è l'ingente costo per il bilancio pubblico, per di più in continua crescita nel tempo.
Fra l'altro non dobbiamo pensare che questo sia un problema solo italiano, perché in questo stesso momento paesi come Francia (riforma attuata da Sarkozy) e Germania (ancora da attuare) stanno avendo gli stessi dibattiti sullo stesso "scivoloso" tema dell'età di pensionamento.
Semplicemente noi italiani abbiamo voluto complicarci la vita, come al solito, per cui fino ai primi anni '90 abbiamo avuto un sistema pensionistico mooolto generoso con pensionati, pre-pensionamenti e baby-pensionati, il quale ha determinato un incremento di spesa più anormale degli altri paesi.
E nei momenti di crisi, "lacune" di questo tipo vengono fuori.

Sinceramente, senza particolari riferimenti empirici o simili ma solo basandomi sul senso comune, non ritengo pensabile un adeguamento dell'età pensionabile alla speranza di vita o quantomeno non in senso stretto. Bisogna ammettere che dopo questo primo shock della riforma Fornero nessuno ha voluto ipotizzare lo scenario del pensionamento a settantanni o poco più, ma questo scenario è in realtà di per sé evidente: infatti è ovvio che se il requisito è di 66 anni e 37 di contributi, per esempio, si presume che tale lavoratore abbia praticamente sempre lavorato dal momento in cui è entrato nel mercato del lavoro. Un fatto poco probabile se andiamo a vedere le fasi positive e negative che ha sofferto la nostra economia, e poco coerente con i molteplici tipi diversi di contratto di lavoro e con tutto il mercato del lavoro in generale (quello attuale almeno).
Perciò possiamo tranquillamente dire che tale ipotesi, nonché gli stessi requisiti di pensionamento, sono del tutto incompatibili con uno scenario lavorativo mondiale decisamente "liberista" ossia non più attaccato all'idea del posto fisso quanto piuttosto all'idea di mobilità e flessibilità, per il semplice fatto che una prospettiva di facilità di entrata e uscita dal mercato del lavoro tale da non posporre/inficiare il raggiungimento dell'età pensionabile (più contributi) vale solo per figure molto qualificate e solo in specifici settori (e il magazziniere di prima 'ndo va?).
Neanche i laureati si sottraggono a questa logica settoriale, infatti i miei "colleghi" lo sanno molto bene.
Per completare il discorso, anche ipotizzando una relativamente abbondante richiesta di lavoro da parte delle imprese in senso lato, ci si dimentica che esistono i momenti di stagnazione o crisi (guarda caso come il nostro attuale) che influiscono negativamente sulla ricerca di lavoro, e infine ci si dimentica che esiste la "disoccupazione frizionale", ossia quel periodo di tempo (anche breve, ma presente) tra un lavoro e l'altro (cioè il tempo di trovare un annuncio e organizzare/partecipare a colloqui dal primo giorno successivo al licenziamento/dimissioni).

Ormai il contesto socio-economico mondiale è improntato su assetti liberisti in ambito lavorativo, per cui per dare una soluzione realistica al problema del pensionamento, senza chiedere stravolgimenti del sistema in sé e del mercato del lavoro, e dovendo (il sistema pensionistico) adeguarsi al sistema lavorativo (che è poi quello che più incide sulla Previdenza stessa) conviene esaminare le opzioni più fattibili...

...E l'unica possibilità effettiva è purtroppo la PREVIDENZA COMPLEMENTARE/INTEGRATIVA.

Infatti l'unico modo per coniugare un limite minimo lavorativo tutto sommato accettabile (66-67 anni) con una pensione più o meno decente, senza mandare in rovina lo Stato, è obbligare i lavoratori ad iscriversi (ad inizio carriera) in un fondo di previdenza complementare, dove sarà versato il loro TFR, i contributi (loro più quelli del datore di lavoro/committente) ed eventualmente altri contributi volontari.
Perché dico "purtroppo"?
Per il semplice fatto che in tal modo ci tocca affidare i nostri risparmi ai rendimenti determinati su mercati finanziari psicolabili (soprattutto se il Fondo Pensione investe in azioni) che non solo potrebbero non garantire interessi/rendimenti superiori all'inflazione* (come invece fa lo Stato, in parte), ma che anzi potrebbero determinare differenze rilevanti a seconda del periodo o dell'anno in cui si va in pensione.
Inoltre questo segna la perdita non trascurabile di una delle più importanti funzioni del Welfare State (di nuovo con grande gioia dei liberisti), il sistema pensionistico, il quale veniva gestito dallo Stato proprio in quanto argomento complesso e delicato: infatti c'è un'evidente "asimmetria informativa" dei singoli lavoratori rispetto al loro futuro e su come gestire i propri guadagni in relazione alle loro aspettative e stili di vita, una asimmetria tale da richiedere che fosse lo Stato a decidere in che misura, per quanto tempo, con che caratteristiche e aliquote contribuire e soprattutto come gestire tali risparmi e COME GARANTIRE CHE TALI CONTRIBUTI FOSSERO PRESERVATI DALLA PERDITA DI POTERE D'ACQUISTO E DA EVENTI ECONOMICI NEGATIVI!

[*Se il rendimento del 2012 del Fondo Pensione è del 2% al netto dei costi amministrativi, ma l'inflazione 2012 è stata del 3%, allora in realtà ho perso l'1% del potere d'acquisto dei "miei soldi" in quell'anno]

Diciamo che si tratta di un COMPROMESSO: IO risparmio al bilancio pubblico la spesa per la gestione, accertamento, riscossione ed eventuale contenzioso, misurazione, adeguamento all'inflazione ed erogazione della mia pensione (sperando che tali soldi risparmiati siano investiti per favorire lo sviluppo, altrimenti forconi), mentre mi accollo una parte del rischio (prima garantito dallo Stato) affidandomi ai mercati finanziari (in termini di rendimenti, inflazione, aspettative ed eventuali perdite) e tutto ciò che ne consegue in termini di prestazione pensionistica, quindi anche la possibilità (molto probabile) che se avessi lasciato contributi e TFR all'INPS forse avrei avuto una pensione più alta, ma avendo però la possibilità di decidere quando andare in pensione in quanto sarò sempre al corrente dell'ammontare della mia pensione futura di anno in anno, perciò se a 65 anni tra contributi obbligatori e volontari sono riuscito a raggiungere una pensione mensile che ritengo soddisfacente (e se mi sono rotto di lavorare) ho la possibilità di uscire tranquillamente dal mercato del lavoro. Quantomeno c'è anche il vantaggio fiscale, che in un certo senso ti "ringrazia" per la scelta fatta garantendoti minore tassazione sui rendimenti del Fondo Pensione e sulla pensione stessa quando sarà erogata.

Per essere ancora più diplomatici si può mantenere il sistema attuale che ti garantisce la possibilità di passare alla previdenza complementare in qualunque momento, con l'unica modifica che per usufruire della pensione accumulata tramite il Fondo Pensione non sono necessari i requisiti obbligatori (età, contributi ecc...) previsti per i lavoratori del mio settore/categoria che invece non si sono affidati alla previdenza complementare (com'è invece attualmente).
Cioè io faccio sto sforzo sì, però decido io quando andarmene (al massimo si può richiedere che il limite minimo per uscire sia il fatto di poter usufruire di una pensione di almeno 800-900 euro netti).

Una terza alternativa che viene spesso sbandierata è la possibilità di restare in ambito pubblico (INPS per esempio), però integrando la bassa pensione con contribuzioni volontari effettuate con parte dei soldi dello stipendio (come integrazione nell'ambito della previdenza complementare, oppure come investimento in un'ottica di futuri risparmi per la pensione come può essere un investimento in BTP), ma è evidente che solo su stipendi rilevanti si può pensare di riuscire addirittura a risparmiare e a contribuire volontariamente con cifre quantomeno non esigue (sennò non conviene).
In questo caso si fa riferimento al tasso di sostituzione, cioè al rapporto tra l'ultimo stipendio e la prima pensione (generalmente inferiore), che determina un gap che potrebbe essere in tal modo colmato.









lunedì 11 febbraio 2013

Sintesi della spesa pubblica

Prima di procedere all'analisi categoria per categoria della spesa pubblica bisogna avere chiaro alcuni numeri e concetti di base per capire appieno l'argomento in discussione.

[I documenti più utili al riguardo sono i seguenti: 1, 2, 3, 4, 5. I primi due in assoluto sono i più utili]

La spesa di tutte le Amministrazioni Pubbliche (d'ora in poi AAPP), quindi non solo lo Stato ma anche Amministrazioni locali ed Enti di Previdenza, è passata da 85 mld nel 1980 ai circa 799 del 2011, che diventano 720 mld circa al netto della spesa per interessi (sul debito pubblico).

La spesa pubblica totale ha quindi raggiunto il 50,5% del PIL nel 2011, mentre la spesa primaria (al netto degli interessi) ha raggiunto il 46,5%. La componente primaria è quindi in linea con quella degli altri paesi (di poco inferiore rispetto a UK e Francia, di poco superiore rispetto a Spagna e Germania).

La spesa primaria totale si divide in particolare tra i vari soggetti secondo queste percentuali:

  • 11,2% del PIL (ossia il 24,5% della spesa totale) effettuata dalle Amministrazioni Centrali;
  • 15,1% del PIL (ossia il 33,1% della spesa totale) effettuata dalle Amministrazioni Locali (la cui voce più consistente è data dalla spesa per gli Enti Sanitari Locali);
  • 19,3% del PIL (ossia il 42,4% della spesa totale) effettuata dagli Enti di Previdenza;
In questo contesto l'evoluzione della spesa è stata molto pronunciata negli anni da parte degli Enti di Previdenza, una diminuzione da parte delle Amministrazioni Centrali (al contrario di quello che si pensa) e una sostanziale stabilizzazione da parte delle Amministrazioni Locali.

[Per Amministrazioni Centrali si intendono le spese per i Ministeri, la Presidenza del Consiglio, la Corte dei Conti, la Corte Costituzionale, il Tar, le Agenzie fiscali,il Consiglio di Stato, Enti di regolazione, Enti di ricerca e così via]

Per quanto riguarda la categoria economica dei redditi da lavoro (stipendi e retribuzioni in sostanza):

  • 6% del PIL (ossia il 56,1% della spesa per redditi da lavoro) nelle Amministrazioni Centrali;
  • 4,5% del PIL (ossia il 41,3% della spesa per redditi da lavoro) nella Amministrazioni Locali (di cui la metà solo negli Enti Sanitari);
  • 0,2% del PIL (ossia il 2,1% della spesa per redditi da lavoro) negli Enti di Previdenza;
A livello cumulato percentuale negli ultimi dieci anni l'incremento maggiore è stato sostenuto dalle Province, poi Regioni, Enti Sanitari, Stato, Enti di Previdenza e infine Comuni.

Per riguarda la categoria economica dei consumi intermedi (cioè acquisti di beni e servizi che servono a produrre determinati beni o servizi, quindi non fini a se stessi):

  • 1,6% del PIL (ossia il 27% della spesa per consumi intermedi) nella Amm. Centrali;
  • 4,1% del PIL (ossia 71,2% della spesa per consumi intermedi) nelle Amm. Locali (di cui ben il 31,3% dipende dagli Enti Sanitari);
  • 0,1% del PIL (ossia il 1,9% della spesa per consumi intermedi) negli Enti di Previdenza;
Qui la differenza è notevole, nel senso che la dinamica della spesa negli anni è aumentata, ma in fase di stabilizzazione, in tutti i comparti (negli Enti di Previdenza è in netta diminuzione) tranne che per quanto riguarda gli Enti Sanitari, che invece vedono un notevole incremento tuttora in corso.

Per quanto riguarda il solo bilancio statale, si parla di circa 521 mld di entrate nel 2011, a fronte di circa 520 mld di uscite in termini di competenza (cioè entrate e spese impegnate per quell'anno, ma non per forza incassate/spese materialmente), che diventano rispettivamente 452 e 519 mld in termini di cassa (cioè le spese effettivamente pagate e le entrate effettivamente riscosse). 
Dopo il picco di 540 mld di spese nel 2009, le varie manovre correttive hanno portato una riduzione di 20 mld nel 2010-2011. 

I maggiori incrementi della spesa statale sono dovuti ai trasferimenti per gli Enti Sanitari, gli Enti di Previdenza e in parte per maggiori spese per redditi da lavoro (anche se in via di stabilizzazione).

Distinguendo all'interno della spesa primaria del bilancio statale (circa 447 mld in termini di cassa), vediamo che il 54% (circa 241 mld) riguarda i trasferimenti ad altre AAPP (in costante aumento negli anni), mentre un 25% circa riguarda il personale, IRAP, consumi intermedi e altre uscite (111 mld, nel complesso stabili e in via di miglioramento).
L'11% di tale spesa (circa 49 mld) è diretta ad interventi verso l'estero (finanziamento del bilancio UE) e verso l'economia nazionale (alle famiglie, alle imprese, o acquisizione di attività finanziarie), infine la parte restante riguarda poste di regolazione contabile (10,1%), ossia restituzioni di imposte e rimborsi a famiglie e imprese (44 mld).

Se consideriamo il livello di ricorso al mercato consentito (ossia raccolta di capitali tramite i titoli di debito pubblico, 303 mld circa nel 2011 in termini di cassa) e la spesa per interessi sul debito pubblico (circa 74 mld), la spesa statale diventa di circa 706 mld (perché il ricorso al mercato è sì di 303 mld, ma il rimborso del debito pubblico in scadenza, che è la vera spesa, è di soli 186 mld nel 2011). I circa 92 mld di differenza rispetto al valore complessivo di 798 mld di tutte le AAPP sono residui passivi (cioè spese/somme impegnate ma non pagate).























domenica 10 febbraio 2013

La bufala del Signoraggio

Visto che ogni tanto qualcuno tira in ballo questo tema (Sgarbi e Marra da ultimo) sarebbe il caso di capire cos'è esattamente questo "odioso" Signoraggio che tutti criticano all'unisono e che unisce i complottisti di tutto il mondo.

Generalmente si distinguono due forme diverse di Signoraggio:

  • Signoraggio economico (quello più conosciuto):

    • Versione "bufala": quando la BCE o la Banca d'Italia (BdI) stampa una banconota da 100, per esempio, questa viene ceduta allo Stato al prezzo di 100 più gli interessi, interessi che vanno a formare il debito pubblico e che di conseguenza saranno impossibili da ripagare perché sempre maggiori al denaro disponibile nello Stato (se ti presto 100 + 5 di interessi avrai un debito di 105, però i soldi che hai sono solo 100).

    • Realtà: Quando la BCE (o la BdI una volta) stampano denaro, questo viene dato in prestito alle banche commerciali ad un determinato tasso di interesse e/o investito in strumenti finanziari; la differenza tra il rendimento derivante da tali prestiti/investimenti e il costo di produzione e gestione della BCE/BdI viene poi ridato allo Stato.
      Facciamo un esempio: la BCE stampa 100 euro, ne presta 50 alle banche commerciali e 50 li investe, e il reddito annuo che ottiene lo cede alle singole Banche Centrali in proporzione alla loro partecipazione al capitale della BCE (tutte le Banche Centrali dei paesi appartenenti all'Eurozona partecipano al capitale della BCE secondo il peso di ciascuno Stato dell'Euro nell'economia europea), reddito che a sua volta viene ceduto allo Stato al netto delle spese di funzionamento della BdI (di solito indirettamente tramite imposte).

  • Signoraggio bancario:

    • Versione "bufala": quando depositi denaro in un conto corrente o simili, una banca commerciale può usarlo per concedere prestiti a cittadini/imprese, però è obbligata a mantenere una certa percentuale del deposito in forma liquida (come garanzia). In questo modo su un deposito di 1000 euro, la banca dovrà tenere il 2% (per esempio) disponibile, ossia 20 euro, usando i restanti 980 per un prestito; quei 980 potrà però usarli nuovamente come base per un altro prestito, trattenendo il 2% in forma liquida (19,6 euro), e lo stesso avviene sui restanti 960,4 e così via all'infinito (cioè da un singolo prestito reale viene creato infinito denaro virtuale).

    • Realtà: si tratta della c.d. "riserva frazionaria", cioè sul totale dei depositi, una banca deve mantenere almeno il 1% (solo in certi casi) in forma liquida presso la Banca Centrale, potendo prestare quanto resta (tranne alcuni vincoli di cui non parlerò).
      Non può però usare all'infinito lo stesso deposito di 1000 euro per fare molteplici prestiti perché vorrebbe dire creare denaro virtuale all'infinito. Su 1000 euro ne presto 990 e 10 vanno come garanzia e finisci qui il denaro a disposizione della banca, per cui per effettuare altri prestiti dovrò aspettare nuovi depositi o nuovi prestiti dalla BCE.

Quindi se ipotizziamo che la BCE stampa 1 milione di euro, ne presta 500mila e ne investe 500mila entrambi al 5% guadagnando in un anno 50mila, di cui il 12,5% (ossia 6250 euro) andrà alla BdI in proporzione alla sua partecipazione. Ipotizzando un costo di gestione e mantenimento di 1000 euro della BdI, i restanti 5250 saranno recuperati dallo Stato tramite le imposte sulla BdI stessa.

In definitiva il Signoraggio economico non esiste più da molto tempo, mentre quello bancario esiste sì, ma non funziona nel modo spesso descritto.

A quanti ritengono che il 1% di garanzia è troppo poco, ricordo solo che quel denaro serve per i prestiti a cittadini/imprese, per cui più alzi la riserva di garanzia minore sarà la liquidità del sistema economico, di conseguenza minori saranno gli investimenti perché il denaro è poco e quindi costoso (per di più se tutti risparmiano la domanda crolla, ce lo dice anche Keynes).

Che piaccia o no il sistema capitalistico, puro o "attenuato" che sia, si basa sulle Banche Centrali, sulle singole banche e su meccanismi di questo tipo.
Già solo una riserva intorno al 25% (quindi un quarto del denaro viene garantito) sarebbe uno shock per l'economia peggiore dell'attuale crisi, e porterebbe ad una gravissima deflazione-stagnazione (sullo stile post-crisi del '29: cioè nessuno ha soldi, nessuno investe, i prezzi scendono e il reddito di conseguenza sempre di più).












3) Crescita, PIL e Domanda...che fare?

Ora che sappiamo che per far riprendere l'economia italiana non possiamo far leva sul tasso di cambio o su altri strumenti tipici della Banca Centrale (perché ormai sono stati delegati alla BCE), che non possiamo aumentare la spesa pubblica o il debito (perché col Pareggio di Bilancio e il Fiscal Compact ci siamo impegnati con l'Europa a ridurre anno per anno il nostro debito pubblico, un impegno esoso che non permette i necessari incrementi di spesa per rimettere in moto l'economia) e visto che le riforme che l'Europa dovrebbe adottare per eliminare o quanto meno ridurre le ampie differenze tra i paesi del Nord e del Sud Europa sono portate avanti con una lentezza esasperante, nonostante i notevoli problemi che caratterizzano i PIIGS (del resto anche se è effettuata tra Stati Membri, invece che tra partiti, sempre di mediazione politica si tratta), resta da capire cosa si può fare per tentare di dare qualche minimo impulso alla ripresa piuttosto che aspettare che USA, Cina e gli altri paesi in via di sviluppo ricomincino ad aumentare le importazioni di prodotti nostrani (come sta lentamente avvenendo).

In un contesto del genere l'UNICA risposta possibile sta nella rimodulazione della spesa pubblica e in un cambiamento nella nostra struttura industriale.

Nei prossimi post quindi partiremo dalla spesa pubblica, andando a vedere argomento per argomento dove agire; daremo in ultima analisi anche uno sguardo alla situazione dell'industria italiana, cercando di capire quali politiche industriali conviene attuare.