lunedì 4 marzo 2013

L'industria italiana

Com'è composta e in che condizioni è la nostra attività manifatturiera nazionale?

Innanzitutto bisogna puntualizzare il fatto che attività manifatturiera e industria sono in generale la stessa cosa (solo che utilizzando il primo termine si evoca chiaramente un ambito più ampio del solo lavoro in grossi capannoni alla Dickens).

A livello storico-settoriale la struttura industriale dei paesi europei (dati 2011) risulta caratterizzata in vario modo:

  • l'Irlanda, grazie al processo di attrazione di investimenti esteri e alla localizzazione di imprese multinazionali, risulta fortemente specializzata in alcuni comparti manifatturieri a più elevato contenuto di ricerca e tecnologia; in questi settori la quota di valore aggiunto supera in misura consistente quella media europea (chimica, farmaceutica, computer e prodotti ottici e elettronici); 
  • la Germania spicca per una specializzazione concentrata nei settori della fabbricazione di macchinari e autoveicoli oltre che nei macchinari elettrici e beni ad elevata tecnologia (pc, elettronica, ottica eccetera); 
  • la Francia non evidenzia una particolare concentrazione in settori di attività manifatturiera, al contrario in molti comparti la quota di valore aggiunto appare più bassa di quella media europea; 
  • l’Italia conferma la propria vocazione alla produzione di beni in alcuni settori tradizionali (tessile, abbigliamento) e nel comparto dei macchinari.

In particolare dagli ultimi dati Istat (2010) si evince che la nostra struttura produttiva è diversificata a seconda delle macro-regioni, in particolare nel Sud prevalgono le micro imprese, nel Nord-Ovest la grande industria, nel Nord-Est le PMI industriali e nel Centro le grandi imprese di servizi (rispetto alla media nazionale diciamo).

Più nello specifico, al Centro prevalgono le grandi imprese di servizi del Lazio, in Toscana prevale la micro-industria, mentre quella piccola, con 10-49 addetti, è più diffusa nelle Marche e in Umbria; nel Mezzogiorno, invece, sono dominanti le micro imprese: dei servizi in Campania, Calabria, Sicilia e Sardegna; dell’industria in Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise; in tutto il Nord-est la quota di addetti dell’industria raggiunge quasi il 50 per cento, con una concentrazione soprattutto di micro e di piccole imprese, mentre nel Nord-ovest, ed in particolare nel Piemonte, è prevalente, rispetto alla media nazionale, la grande industria.


La dimensione media delle imprese è di 3,9 addetti (si tratta del rapporto tra numero di addetti e numero di imprese).
A livello settoriale non vi sono particolari differenze rispetto a Francia e Germania, però a livello dimensionale la diversità si nota in modo molto marcato; in generale nelle economie dell'Europa continentale prevale la grande impresa, con UK e Olanda che sono i più terziarizzati.


Per quanto riguarda i valori assoluti (dati 2010): le imprese attive dell'industria e dei servizi di mercato sono 4,37 mln, occupano 16,7 mln di addetti (di cui 11,2 mln di dipendenti) e hanno una dimensione media 3,8 addetti.
Complessivamente realizzano 708 mld di valore aggiunto (cioè il maggior valore derivante dalla produzione, d'ora in poi VA).
Le micro imprese (meno di 10 addetti) prevalgono in tale contesto, infatti rappresentano il 94,9% delle imprese (4,15 mln), occupano 2,91 mln di dipendenti e creano 220 mld di VA; viceversa le grandi imprese (250 e più addetti) sono 3495, occupano 3,17 mln di addetti e creano 225 mld di VA.
Il settore dei servizi rappresenta il 76% del totale, con 3,32 mln di imprese, il 63,3% di addetti (10,56 mln) e il 56,9% di contributo alla creazione di VA (402 mld)
L' industria in senso stretto invece rappresenta il 10,1% (441mila imprese), con il 25,8% degli addetti (4,3 mln) e il 34,6% del VA (245 mld), mentre nel settore delle costruzioni si concentrano il 13,9% delle imprese (607mila), il 10,9% degli addetti (1,8 mln) e l’8,5% del VA (60 mld).


Sembra (dico sembra perché l'Istat stesso precisa che è difficile misurare con certezza tale dato) che in linea generale nel periodo 2007-2011 si assiste in Italia ad una contrazione (seppur non disastrosa come negli Stati più colpiti dalla crisi) della quota di VA dei prodotti in metallo (esclusi macchinari e attrezzature), altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi, apparecchiature elettriche e apparecchiature per uso domestico non elettriche, autoveicoli rimorchi e semirimorchi, computer e apparecchi di elettronica e ottica nonché elettromedicali e orologi, prodotti in legno, tessile e altri prodotti della lavorazione di minerali non metalliferi.
D'altro canto l'alimentare, il farmaceutico, l'abbigliamento in pelle e pelliccia, nonché la manutenzione-riparazione-installazione di macchine ed apparecchiature hanno subito un sostanziale incremento.














sabato 2 marzo 2013

Una precisazione essenziale

Tra i vari interventi e commenti fatti è il caso di spiegare sinteticamente cosa sostengo.

Allora,

Se usciamo dall'Euro abbiamo tre vantaggi: aumentare il consumo interno e l'export di una percentuale abbastanza consistente, nonché controllare meglio le nostre politiche economiche (di nuovo lira, Banca d'Italia e relativi guadagni da Signoraggio).

Si tratta di un vantaggio PURAMENTE economico e di bilancio, e PURAMENTE di stabilizzazione, cioè uscendo dall'Euro non risolveremo il problema della giustizia lenta o dell'evasione fiscale, né tanto meno potremo "dedicarci" all'autarchia, semplicemente si evita di strangolare l'economia.

Uscire dall'Euro NON porta alcun beneficio in termini di sviluppo tecnologico e specializzazione industriale, mentre attualmente l'Euro in sostanza obbliga le imprese ad adeguarsi al progresso o a fallire (in modo molto netto). Per cui il beneficio è SOLO in termini di competitività di PREZZO.

D'altro canto è chiaro che ritornando alla lira avremo poi il pieno controllo della Banca Centrale e riusciremo a coordinare meglio la politica economica del Governo e quella della Banca d'Italia ("fine tuning", consigliato dagli economisti normali). Questo è ovviamente un vantaggio perché per di più non devi tener conto delle condizioni e problemi di altri 16 paesi prima di agire.

Uscire dall'Euro non vuol dire uscire dall'Europa né andare in default, a meno che nel frattempo non fai dei casini tali che lo spread arriva ai livelli greci.

Andare a vedere ogni giorno la chiusura dei mercati finanziari o lo spread NON serve a nulla, perché sono indicatori di BREVE periodo e possono riflettere momenti di tensione, tipo che non c'è un Governo, nonché essere influenzati da mille diversi variabili giornaliere (dati pubblicati, commenti, rumors, grossi acquisti, dichiarazioni ufficiali, variazioni in mercati indirettamente correlati ecc) per cui a meno che non si tratti di un paese dal culo (come la Grecia o il Portogallo) non è un granché come indicatore di lungo periodo.

Visto che Grillo ne parla: non c'è alcun bisogno di rinegoziare il debito pubblico e i relativi interessi, almeno fino a quando non arriveremo al punto greco (per cui vale il discorso "schifo per schifo tanto vale...").
Se si tira in ballo il discorso dell'ammortamento democratico allora il discorso è diverso e più complicato (qui ne ho parlato).