giovedì 5 gennaio 2017

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo


Vista l'importanza della sentenza 25201/2016 della Cassazione, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, vale la pena riportare i passaggi principali per ripercorrere a cosa si deve questa interpretazione.

  
La Corte d’Appello di Firenze ha rigettato la decisione del Giudice di primo grado in merito a un licenziamento “effettivamente motivato dall’esigenza tecnica di rendere più snella la cd. Catena di comando e quindi la gestione aziendale”.

La Corte ha sostenuto che, in mancanza di prove da parte del datore di lavoro dell’esigenza di fare fronte a sfavorevoli e non meramente contingenti situazioni influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario, “ogni riassetto dell’impresa risulta motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento dei profitti”. Reputando quindi insufficiente la dimostrazione dell’effettività della riorganizzazione.
La sentenza impugnata trova la ratio decidendi in quella parte della giurisprudenza secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comprende l’ipotesi del riassetto organizzativo attuato non semplicemente per un incremento di profitto bensì per far fronte a situazioni sfavorevoli influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario, che deve essere provato dal datore e accertato dal giudice (Cass.: 12514/2004 – 21282/2006 – 7006/2011 – 19616/2011 – 2874/2012 – 24037/2013 – 5173/2015 – 13116/2015).

Secondo un altro orientamento, le ragioni inerenti “l’attività produttiva” (di cui all’art. 3 della L. 604/1966) possono derivare anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti; opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall’art. 41 della Costituzione (L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali) per il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato, del quale il datore di lavoro ha il naturale interesse ad ottimizzare l’efficienza e la competitività (Cass.: 10672/2007 – 12094/2007).
Anche in precedenza si era avuto modo di affermare che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro possono essere le più diverse (Cass. 9310/2001), non potendosi distinguere nelle ragioni economiche a sostegno della decisione imprenditoriale “tra quelle determinate da fattori esterni all’impresa, o di mercato, e quelle inerenti alla gestione dell’impresa, o volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto (Cass. 5777/2003).

Più di recente si è considerato estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchimento, o non impoverimento, perseguito dall’imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento di utili a beneficio dell’impresa e, dunque, dell’intera comunità dei lavoratori (Cass. 23620/2015).
Supponendo come indispensabile, affinché si possa ravvisare un motivo oggettivo, che l’impresa versi in situazioni sfavorevoli di mercato superabili o mitigabili solo mediante una riorganizzazione tecnico-produttiva e il conseguente licenziamento d’un dato dipendente, bisognerebbe ammetterne la legittimità esclusivamente ove essa tenda ad evitare il fallimento dell’impresa e non  anche a migliorarne la redditività.

Ma sarebbe una conclusione costituzionalmente impraticabile e illogica: in termini microeconomici e in un regime di concorrenza, nel lungo periodo l’impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato (Cass.: 13516/2016 – 15082/2016).
In analoga prospettiva si collocano tutte quelle decisioni che, senza concretamente indagare sulla preesistenza di una situazione sfavorevole, riconducono ad un giustificato motivo oggettivo di licenziamento la soppressione del posto seguita a: esternalizzazione a terzi (Cass. 6222/1998 – 13021/2001 – 18416/2013), ripartizione della mansione in capo a personale preesistente (Cass. 24502/2011 – 18780/2015 – 14306/2016 – 19185/2016), sospensione parziale delle mansioni (6229/2007 – 11402/2012).

Il riassetto organizzativo attuato è rimesso alla valutazione del datore di lavoro senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41, mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto. Pertanto, non è sindacabile il riassetto organizzativo che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (Cass.: 24235/2010 – 15157/2011 – 7474/2012 – 18409/2016 – 16544/2016 – 6501/2016 – 12242/2015 – 25874/2014).
Tanto premesso, la Corte ritiene che debba essere data continuità, al fine di consolidarlo, al secondo orientamento.

L’interpretazione letterale dell’art.3 (L. 604/66) esclude che il datore debba identificare e accertare situazioni sfavorevoli o spese di carattere straordinario. Non è possibile aprioristicamente o pregiudizialmente escludere le ragioni che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa. La diversa interpretazione non trova riscontri normativi e deriva dall’extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l’uso del licenziamento dovrebbe essere socialmente opportuna.
Tale lettura non appare innanzitutto costituzionalmente imposta.
La Corte Costituzionale ha avuto occasione di affermare che nell’art.4 non è dato rinvenire un diritto all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro. L’indirizzo di progressiva garanzia del diritto del lavoro previsto dall’art. 4 e 35 ha portato nel tempo ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore, garanzie che tuttavia sono affidate alla discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma anche dei modi di attuazione, in rapporto alla situazione economica generale (Corte Costit.: 45/1965 – 194/1970 – 189/1980 – 2/1986 – 46/2000 – 541/2000 – 303/2011).
In assenza di una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto l’art. 3 (L. 604/66). Compete al legislatore sancire se il fine sociale cui possa essere coordinata o indirizzata l’attività economica anche privata, nella scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una singola posizione lavorativa, debba necessariamente seguire la strada di inibire il licenziamento, fermo restando che chi legifera può diversamente ritenere che l’interesse collettivo dell’occupazione possa essere meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle imprese di fare fronte alla concorrenza nei mercati e che il beneficio attuale per un lavoratore a detrimento dell’efficienza produttiva possa tradursi in un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi (Cass. 23630/2015).

Non spetta al giudice in presenza di una formula giuridica quale l’attuale art. 3, surrogarsi nella scelta, tenuto conto altresì della inevitabile mancanza di strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la migliore opzione per l’impresa e la collettività.
In proposito, occorre rilevare che in base all’art.30, c.1 (L. 183/2010) in tutti i casi in cui le disposizioni di legge nelle materie del lavoro privato e pubblico contengano clausole generali, ivi comprese quelle in tema di recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore.

Il concetto di situazione sfavorevole non è riportato nell’art. 3, pertanto anch’esso è un sindacato di merito effettuato dal giudice, e non solo di legittimità.
In ossequio alle interpretazioni a SS.UU. non vi è effettiva soppressione del posto nel caso in cui avvenga una mera sostituzione del dipendente con un altro lavoratore pagato meno (Cass. SS.UU.: 3353/1994 – 3899/2001 – 13516/2016). In particolare l’ultima sentenza riporta: non è vietata la ricerca del profitto mediante riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi – nell’ottica dell’art. 41 – ma il perseguire il profitto (o il contenimento delle perdite) soltanto mediante sostituzione con un altro dipendente che costa meno, malgrado la sostanziale equivalenza delle mansioni.


Morale: l'orientamento giurisprudenziale, per quanto letterale, non fa una piega ed è assolutamente sensato da un punto di vista normativo; pertanto, se siamo contrari alla possibilità di licenziare per il semplice motivo di aumentare i profitti/ridurre i costi, e non solo in caso di effettive riorganizzazioni aziendali, è necessario cambiare l'art.3 della L. 604/66.