domenica 11 febbraio 2018

Mercato del lavoro

Questo approfondimento analizza lo status del mercato del lavoro e i trend che lo caratterizzano (e lo hanno caratterizzato finora), prendendo spunto prevalentemente dal primo Rapporto congiunto rilasciato dal Ministero del lavoro, Istat, Inps, Inail e Anpal, finalizzato ad analizzare il mercato del lavoro, integrando fonti dati differenti.

Data la significatività e il livello di dettaglio che connota tale ricerca, quest’ultima sarà la primaria fonte di dati e considerazioni ai fini del recap.

Trattandosi di un documento word, avevo inizialmente creato gli hyperlink con le fonti direttamente cliccando sulle parole di riferimento (quelle in azzurro), lasciando in fondo solo le fonti non direttamente attribuibili. Purtroppo nella versione pdf non è possibile aprirli, per cui cercherò (se riesco, but i can't promise!) di predisporre una versione con tutti i link visibili.


Link Google Drive:
https://drive.google.com/open?id=1AXUDLU45YZViHRH9PDAAJNjlmf4Zh4cK

Enjoy

sabato 15 aprile 2017

Taxi!

Prima o poi era evidente che sarebbe stato necessario discutere anche della questione "taxi", visto che puntualmente si cerca di liberalizzarei il settore - fallendo miseramente - oppure si scopre qualche nuovo servizio che in qualche modo mina il loro monopolio (vedi alla voce Uber).

L'idea ce la dà IlPost - come spesso capita - che prova a spiegare il funzionamento di questo particolare settore.

Normativa & Requisiti
La normativa relativa ai "trasporti pubblici non di linea" è contenuta nella Legge 21/1992, così come modificata con la Legge 248/2006, dove si definiscono il servizio di taxi e il servizio di noleggio con conducente (d'ora in poi NCC), i requisiti e le competenze di Comuni e Regioni in merito.

I requisiti previsti sono di due tipologie:

Requisiti soggettivi:
1) avere 21 anni compiuti;
2) avere la cittadinanza italiana (o di altro Stato europeo);
3) non avere riportato una o più condanne definitive a pene detentive complessivamente superiore ai due anni per delitti non colposi, salvo non sia intervenuta amnistia o riabilitazione;
4) aver assolto l'obbligo scolastico;
5) non essere titolare contemporaneamente di altra autorizzazione o concessione amministrativa e, comunque, non svolgere con carattere di continuità e professionalità altra attività;

Requisiti professionali:
1) essere titolare di patente di guida di categoria B o superiore;
2) essere titolare di certificato di abilitazione professionale di tipo corrispondente alla patente posseduta  conseguibile presso gli Uffici della Motorizzazione civile;
3) conseguire l'iscrizione al ruolo provinciale dei conducenti di veicoli adibiti a servizi pubblici non di linea, presso le camere di commercio;
4) acquisizione della titolarità di licenza ed espletamento dell'attività; 

I Comuni stabiliscono il numero di licenze (e dispongono nuovi bandi di assegnazione), le modalità e le tariffe, sulla base di regolamenti quadro regionali.

Oltre a ciò, va precisato che il servizio NCC richiede la presenza di una rimessa presso la quale il veicolo sosta ed è disponibile all'utenza (una questione importante soprattutto in merito a Uber), un po' come le aree taxi.

Update: l'ultima modifca normativa intervenuta riguarda il recente "Milleproroghe", che ha stabilito in sintesi: il divieto dei servizi svolti da autisti non professionisti (come il servizio UberPop) e l'abolizione dell'obbligo di ritorno in rimessa per le auto NCC.


Lavoro &Reddito
I titolari di licenza per l'esercizio del servizio di taxi o di servizio di noleggio con conducente, possono:

a) essere iscritti, nella qualità di titolari di impresa artigiana di trasporto, all'albo delle imprese artigiane;
b) associarsi in cooperative di produzione e lavoro o di servizi;
c) associarsi in consorzio tra imprese artigiane ed in tutte le altre forme previste dalla legge;
d) essere imprenditori privati (solo se svolgono esclusivamente servizio di noleggio con conducente);


Si tratta, in sostanza, di artigiani o imprenditori che possono associarsi in cooperative.

Per quanto riguarda il loro "guadagno" medio, esiste un dato ufficiale, riscontrabile nel valore medio riportato negli studi di settore, che indica un reddito di circa 1.200 euro lordi al mese, ed esiste un dato più ufficioso, che invece si basa su testimonianze e stime più soggettive, e che vede notevolmente al rialzo questo valore.

Una cosa è certa: nei grandi capoluoghi e nelle città turistiche è assolutamente plausibile ipotizzare redditi molto al di sopra della media, ipotesi del tutto coerente con le indicazioni di prezzo delle licenze in questi Comuni (spesso con la vendita delle stesse gestita parzialmente in nero, a prezzi esorbitanti).
In questo caso, inoltre, vale un semplice presupposto logico: un esborso di una cifra simile non è coerente con un guadagno mensile di 1.200 euro lordi , perché non sarebbe un vero incentivo all'acquisto ("nero" a parte).

Ovviamente le proteste dei tassisti contro ogni tipo di riforma sono "normali" per due evidenti motivi:
- rilasciare nuove licenze implica diminuire il valore di quelle in vigore, penalizzando chi ha pagato 175k di licenza qualche anno fa e che si troverebbe ad avere in mano una licenza rivendibile ad un valore probabilmente più basso;
- anche se l'aumento di licenze fosse compensato da un qualche forma di "indennizzo" per i vecchi licenziatari, il problema rimane sempre un incremento della concorrenza potenziale - nonché un precedente notevole in questo settore - che andrebbe a erodere i margini attuali.


Uber
E poi, in tutto questo, esiste anche Uber. Una semplice app che mette in contatto chi fornisce il servizio di NCC con l'utente.

Molti pensano che Uber operi più o meno legalmente. In realtà Uber non fa altro che gestire e fornire un app agli utenti, segnalare agli stessi la disponibilità e il costo del tragitto, occuparsi dell'addebito della corsa all'utente, fatturare settimanalmente la prestazione all'autista (al netto della sua quota), e verificare ed espletare tutte le procedure e i requirement richiesti dalla legge.

Nel caso non fosse chiaro: gli autisti sono degli imprenditori individuali - più probabilmente collaboratori occasionali - che pagano Uber per poter fornire la prestazione NCC ad un numero maggiore di utenti, sempre e comunque garantendo il possesso di tutti i requisiti elencati sopra (ivi inclusa la licenza NCC).

Perché piace tanto rispetto ai taxi? Facile, costa mediamente meno (punto 1) e offre un servizio migliore (punto 2). Partiamo dal punto 2, che è più semplice.

2) L'autista viene valutato a fine corsa e questa valutazione è tra i parametri utilizzati da Uber per valutare il compenso minimo orario per ogni ora di disponibilità. E' evidente che il servizio deve essere ottimo e la presentazione all'utente eccellente. Viceversa, il tassista ha delle tariffe predefinite (con un buon ricavo medio) e non ha alcun bisogno di essere simpatico. E' sufficiente che arrivi a destinazione in un tempo ragionevole.

1) Le tariffe medie sono più basse, peché il prezzo medio è più basso ma allo stesso tempo la percentuale trattenuta all'autista è molto superiore rispetto a quanto applicato da MyTaxi (per esempio). Uber non applica tariffe più basse perché ha costi minori dei tassisti, anzi, però si è astutamente lanciata sul mercato presentandosi come alternativa di qualità a basso costo, con l'ovvio obiettivo di "rivedere" in qualche modo (al rialzo) le tariffe, una volta stabilizzato il business.

La vera "bomberata" di Uber è, in realtà, il secondo punto, ossia scaricare sull'autista parte del minor guadagno derivante da queste minori tariffe medie. In sostanza, ha tamponato il problema "copertura costi" rivalendosi parzialmente sui conducenti.

Normalmente questo genererebbe molto clamore, ma grazie al fatto che gli autisti non sono dipendenti, in qualche modo ci si sente meno offesi, perché tanto si tratta di persone che lo fanno come secondo lavoro...

Ma siamo sicuri? L'acquisizione della licenza NCC non è proprio economica e ha un prezzo medio tra i 20.000 e i 30.000 euro (sempre con la particolarità dei grandi capoluoghi, dove il prezzo può salire molto), pertanto non è esattamente una spesa che ci si può permettere per poi svolgere quest'attività come lavoretto occasionale. Lo sarebbe stato se si fosse preso in considerazione la versione UberPop, dove sostanzialmente chiunque poteva improvvisarsi autista senza bisogno di licenza, ma di certo non nella versione Uber Black - e simili - (unici servizi legali, ad oggi) di NCC.
Inoltre, Uber in particolare, richiede una presenza minima di tot ore di disponibilità per poter accedere ad un compenso orario più sostanzioso del normale (quindi l'idea di dare disponibilità solo nel weekend non è sicuramente remunerativa).

Aggiornamento sulla situazione legale di Uber: nonostante i timori di stop definitivo del servizio imposto dalla sentenza del Tribunale di Roma, il successivo ricorso della società è stato accolto e allo stato attuale ha sospeso il precedente provvedimento.


Conclusione generale
Non esiste una vera e propria conclusione, così come non esiste una parte buona e una cattiva.

Regolamentare le tariffe del settore taxi ha lo scopo ben preciso di tutelare i soggetti che vi operano e gli utenti, per qualsivoglia ragione. Viceversa, la presenza di un basso numero di licenze è già meno giustificabile nei grandi capoluoghi, e non fa altro che mantenere le barriere all'entrata nel settore, nonché determinare un prezzo di vendita delle licenze troppo alto.

Quanto avviene nel settore NCC, invece, è già diverso e, in particolare, dal lato tariffario non vede grandi regolamentazioni. Le licenze, inoltre, sono più facilmente ottenibili, ma presentano comunque un prezzo di acquisto significativo, che in questo caso non deriva tanto (o comunque non volutamente legato) al mantenere delle forti barriere all'entrata, quanto piuttosto al "premio" riconosciuto per una licenza che rappresenta possibilità di guadagno più sicure di altre attività, ma che allo stesso tempo deve proporzionalmente tener conto della differenza di ricavi rispetto a un tassista.

Insomma, un conto è spendere 150.000 con la prospettiva di ricavarne in media 2.500 (al mese), un altro è sborsare 30.000 ipotizzando di guadagnarne 1.000 (e con la presenza di una concorrenza maggiore).


Conclusione normativa
Soluzioni alla questione? Se ne potrebbero ipotizzare due. Andiamo per ordine di improbabilità di messa in atto.

- Eliminare il servizio taxi: fino all'altro ieri si pensava che nessuna società di servizi NCC avrebbe mai iniziato a svolgere in modo sistematico il proprio servizio - diventando di fatto un simil taxi - però ora è successo. Quindi che senso ha mantenere una distinzione tra taxi e NCC, quando, di fatto, il servizio è lo stesso?! I taxi sono "arrivati" prima e con un'idea di versa dal noleggio occasionale, sono d'accordo, ma ormai la realtà è cambiata.

Operativamente: il servizio taxi è abolito. Tutti i tassisti attualmente operativi avranno la propria licenza convertita in una normale licenza NCC. Ogni tassista sarà indennizzato per questo cambiamento "repentino" in misura proporzionale, che sia un rimborso una tantum calcolato tenendo conto del prezzo di acquisto della licenza, dei ricavi potenziali e degli anni di vita utile, o che sia un indennizzo vero e proprio stabilito in base alla situazione del singolo, questo non ha importanza; l'importante è garantire un'equa liquidazione ed evitare la possibilità di sovraffollamento delle singole città (per es. dando priorità agli "ex tassisti" nel momento in cui si riscontri un numero di licenze totali troppo alto, al momento del cambiamento normativo).

- Accentrare le competenze: oggi è il livello comunale quello che va effettivamente a regolamentare le tariffe dei taxi e il numero di licenze. Il problema è che gli amministratori locali non ha tendenzialmente le palle di mettersi direttamente contro la categoria, perché sono più direttamente esposti a ritorsioni e blocchi locali. Questa situazione non fa altro che perpetuare lo status quo della categoria, senza permettere alcun ritocco normativo.

Operativamente: le competenze comunali  vengono abolite e trasferite a livello regionale, con possibilità da parte del Governo di intervenire in caso di manifesta inefficienza e/o incapacità dell'ente (una specie di legislazione concorrente ex art. 117 della Costituzione). Il Comune avrà solo funzione consultiva al momento dell'emanazione di nuove norme. Fatto questo, si può già iniziare a valutare tutta una serie di impatti relativi all'emissione di nuove licenze, o direttamente conseguenti all'applicazione del primo punto.


Conclusione pratica
E nel frattempo? Considerando che le misure di cui sopra fanno riferimento allo scenario "dopodoMAI", è evidente che dobbiamo trovare un escamotage transitorio.

Non è necessario parteggiare in favore di una o dell'altra categoria - che poi vuol dire prendere Uber o un taxi - perché entrambe sono frutto di una situazione economica "anomala", quindi l'unica consolazione che si può avere scegliendo Uber, è che in un certo senso si sta anche mandando un chiaro segnale di intolleranza verso la situazione normativa attuale. Il fatto che quelli di Uber sorridano di più non è una scusa (per i motivi già citati sopra).

Un buon compromesso - più etico che altro - potrebbe essere alternare uno e l'altro. Per il semplice fatto che se facciamo un esercizio di immaginazione ipotetica, in cui nell'arco di sei mesi il settore taxi subisce una contrazione del 50% degli utenti, le conseguenze economiche sui singoli tassisti sarebbero decisamente reali (e i tempi per la predisposizione ed erogazione di un indennizzo da parte del Governo non è detto che sarebbero così reattivi), andando a pesare soprattutto sui mutui contrattai e mandando in rovina delle famiglie.

Detto ciò, aggiungo solo che nel caso di Uber l'ideale sarebbe dare una piccola mancia.
Un compromesso banale ma molto efficace, che se effettuato in massa avrebbe la potenzialità di riequilibrare i rapporti economici rispetto ai colleghi tassisti.

sabato 8 aprile 2017

USA - Marijuana

Grazie alle perle di John Oliver ho scoperto alcuni fatti interessanti relativamente alla questione marijuana legalization negli USA.

Vale la pena sintetizzare la questione, così da poter evidenziare alcune genialate di cui non ero a conoscenza.

Premessa
Ad oggi, abbiamo 44 Stati che permettono qualche forma di utilizzo della marijuana (che sia a fini medici o ricreativi). Gli Stati rimasti sono: Idaho, North Dakota, South Dakota, Nebraska, Indiana e West Virginia. Alcuni di questi stanno perlomeno trattando per un'introduzione di qualche forma di legalizzazione.
A livello federale, invece, qualunque uso della marijuana rimane illegale, e, come se non bastasse, viene pure classificata come droga di livello 1, ossia il livello più pericoloso (al pari dell'eroina) e che indica il più alto potenziale di abuso! Volete sapere alcune delle droghe considerate a "minor rischio di abuso" - ossia di livello 2? COCAINA, METANFETAMINA, METADONE...(lol).

Il punto
Poiché le leggi dei singoli Stati non possono bypassare quelle federali, la coltivazione, l'utilizzo e la vendita di marijuana a qualunque fine sono tuttora punibili. Fortunatamente, le agenzie federali e il Dipartimento di Giustizia hanno emanato delle linee guida per dare un'indicazione ai pubblici ministeri su come muoversi in questo contesto e quali priorità perseguire nella lotta alla marijuana negli Stati dove è stata in qualche modo legalizzata.

In ogni caso, il rischio di essere perseguiti per coltivazione o vendita (in particolare) rimane presente, ed è soprattutto molto alto per quelli che ne hanno fatto un'attività.
Proprio su questo punto è interessante notare i due pesi e due misure applicati dal punto di vista federale:

- Da un lato, la licenza alla vendita di marijuana viene rilasciata dal singolo Stato ma non viene riconosciuta a livello federale, lasciando pertanto l'attività in una situazione di incertezza per quanto riguarda la gestione e la regolarità dello stesso (eg: l'apertura di un conto corrente associato a un negozio che vende marijuana può portare ad accuse di riciclaggio; l'advertising della propria azienda non viene permesso su determinate piattaforme; alcuni consulenti e professionisti necessari allo svolgimento di aspetti "formali" del business potrebbero non voler avere a che fare con un'azienda non riconosciuta a livello federale, per questioni di immagine e di implicazioni legali; etc.)

- Dall'altro, il Governo (tramite l'agenzia delle Entrate americana - IRS) ti impone di dichiarare ogni provento/income ricevuto, anche se DERIVANTE DA ATTIVITA' ILLECITA. Giuro.

Ecco alcuni passaggi che vale la pena citare:  

"if you receive a bribe, include it in your income"

"if you steal property, you must report its fair market value in your income in the year you steal it, unless in the same year you return it to its rightful owner"

"Income from illegal activities, such as money from dealing illegal drugs, must be included in your income (...) if from your self.employment activity" 

E la ciliegina sulla torta è che, pur chiedendoti di dichiarare ogni fonte di reddito, non ti permette di dedurre/"scaricare" tutte le spese associate alla gestione della propria azienda. Può sembrare un tecnicismo noioso ma bisogna considerare che normalmente le tasse sul reddito di un'azienda non vengono calcolate certo sui suoi ricavi, ma su quella che possiamo approssimare come differenza tra ricavi e costi associati all'esercizio di quell'attività.
Basta un esempio per capire l'enorme differenza che ne deriva:

Es.1 -- Imposta del 30% -- Ho venduto 10 auto da 1.000 euro l'una. Per produrle ho speso 800 euro (tra materie prime, utenze varie, dipendenti, consulenti e servizi vari). Sui 200 euro di differenza, pagherò 60 euro di imposte (200 * 30%).

Es.2 -- Imposta del 30% -- Ho venduto 10 kg di erba da 1.000 euro l'uno. Per produrli ho speso 800 euro (tra materie prime, utenze varie, dipendenti, consulenti e servizi vari). Poiché il mio business non viene riconosciuto come legale, io non avrò il beneficio di "togliere" dai miei ricavi i costi sostenuti per produrre ciò che vendo (mica i narcos si deducono i costi della benzina usata per trasportare droga), quindi pagherò 300 euro di imposte (1.000 * 30%). Piccola differenza.

Conclusioni
Da quanto sopra derivano due conclusioni che confliggono una con l'altra: io ho tutto l'interesse a lavorare legalmente nel settore in quanto il mio Stato me lo permette, ma allo stesso tempo sostengo maggiori costi dovuti all'incertezza normativa, al rischio di audit da parte dell'Agenzia delle Entrate, alla difficoltà di accesso a determinati servizi in qualità di impresa, nonché alle maggiori imposte che devo pagare.
Questo ovviamente va a impattare sul prezzo finale che pratico al consumatore (poiché devo coprirmi per i maggiori costi previsti) e in ultima istanza va a determinare un maggiore gap tra il prezzo della marijuana legale e quello della marijuana illegale, che non fa altro che frenare l'emersione del nero e la perdita di potere dei cartelli.

Prospettive
Non buone. Obama a suo tempo non ha preso posizione al riguardo e si è limitato a non intervenire contro quanto deciso a livello di singolo Stato, e di certo non ci si può aspettare un cambiamento (favorevole) di policy da parte di trump. In tutto questo, poi, esistono anche persone che si danno da fare per fermare del tutto i progressi raggiunti.










giovedì 5 gennaio 2017

Licenziamento per giustificato motivo oggettivo


Vista l'importanza della sentenza 25201/2016 della Cassazione, in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, vale la pena riportare i passaggi principali per ripercorrere a cosa si deve questa interpretazione.

  
La Corte d’Appello di Firenze ha rigettato la decisione del Giudice di primo grado in merito a un licenziamento “effettivamente motivato dall’esigenza tecnica di rendere più snella la cd. Catena di comando e quindi la gestione aziendale”.

La Corte ha sostenuto che, in mancanza di prove da parte del datore di lavoro dell’esigenza di fare fronte a sfavorevoli e non meramente contingenti situazioni influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario, “ogni riassetto dell’impresa risulta motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento dei profitti”. Reputando quindi insufficiente la dimostrazione dell’effettività della riorganizzazione.
La sentenza impugnata trova la ratio decidendi in quella parte della giurisprudenza secondo cui il licenziamento per giustificato motivo oggettivo comprende l’ipotesi del riassetto organizzativo attuato non semplicemente per un incremento di profitto bensì per far fronte a situazioni sfavorevoli influenti in modo decisivo sulla normale attività produttiva ovvero per sostenere notevoli spese di carattere straordinario, che deve essere provato dal datore e accertato dal giudice (Cass.: 12514/2004 – 21282/2006 – 7006/2011 – 19616/2011 – 2874/2012 – 24037/2013 – 5173/2015 – 13116/2015).

Secondo un altro orientamento, le ragioni inerenti “l’attività produttiva” (di cui all’art. 3 della L. 604/1966) possono derivare anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti; opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall’art. 41 della Costituzione (L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali) per il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato, del quale il datore di lavoro ha il naturale interesse ad ottimizzare l’efficienza e la competitività (Cass.: 10672/2007 – 12094/2007).
Anche in precedenza si era avuto modo di affermare che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro possono essere le più diverse (Cass. 9310/2001), non potendosi distinguere nelle ragioni economiche a sostegno della decisione imprenditoriale “tra quelle determinate da fattori esterni all’impresa, o di mercato, e quelle inerenti alla gestione dell’impresa, o volte ad una organizzazione più conveniente per un incremento del profitto (Cass. 5777/2003).

Più di recente si è considerato estraneo al controllo giudiziale il fine di arricchimento, o non impoverimento, perseguito dall’imprenditore, comunque suscettibile di determinare un incremento di utili a beneficio dell’impresa e, dunque, dell’intera comunità dei lavoratori (Cass. 23620/2015).
Supponendo come indispensabile, affinché si possa ravvisare un motivo oggettivo, che l’impresa versi in situazioni sfavorevoli di mercato superabili o mitigabili solo mediante una riorganizzazione tecnico-produttiva e il conseguente licenziamento d’un dato dipendente, bisognerebbe ammetterne la legittimità esclusivamente ove essa tenda ad evitare il fallimento dell’impresa e non  anche a migliorarne la redditività.

Ma sarebbe una conclusione costituzionalmente impraticabile e illogica: in termini microeconomici e in un regime di concorrenza, nel lungo periodo l’impresa che ha il maggior costo unitario di produzione è destinata ad essere espulsa dal mercato (Cass.: 13516/2016 – 15082/2016).
In analoga prospettiva si collocano tutte quelle decisioni che, senza concretamente indagare sulla preesistenza di una situazione sfavorevole, riconducono ad un giustificato motivo oggettivo di licenziamento la soppressione del posto seguita a: esternalizzazione a terzi (Cass. 6222/1998 – 13021/2001 – 18416/2013), ripartizione della mansione in capo a personale preesistente (Cass. 24502/2011 – 18780/2015 – 14306/2016 – 19185/2016), sospensione parziale delle mansioni (6229/2007 – 11402/2012).

Il riassetto organizzativo attuato è rimesso alla valutazione del datore di lavoro senza che il giudice possa sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa, atteso che tale scelta è espressione della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41, mentre al giudice spetta il controllo della reale sussistenza del motivo addotto. Pertanto, non è sindacabile il riassetto organizzativo che abbia comportato la soppressione del settore lavorativo o del reparto o del posto cui era addetto il dipendente licenziato, sempre che risulti l’effettività e la non pretestuosità del riassetto organizzativo operato (Cass.: 24235/2010 – 15157/2011 – 7474/2012 – 18409/2016 – 16544/2016 – 6501/2016 – 12242/2015 – 25874/2014).
Tanto premesso, la Corte ritiene che debba essere data continuità, al fine di consolidarlo, al secondo orientamento.

L’interpretazione letterale dell’art.3 (L. 604/66) esclude che il datore debba identificare e accertare situazioni sfavorevoli o spese di carattere straordinario. Non è possibile aprioristicamente o pregiudizialmente escludere le ragioni che attengono ad una migliore efficienza gestionale o produttiva ovvero quelle dirette ad un aumento della redditività d’impresa. La diversa interpretazione non trova riscontri normativi e deriva dall’extrema ratio secondo cui la scelta che legittima l’uso del licenziamento dovrebbe essere socialmente opportuna.
Tale lettura non appare innanzitutto costituzionalmente imposta.
La Corte Costituzionale ha avuto occasione di affermare che nell’art.4 non è dato rinvenire un diritto all’assunzione o al mantenimento del posto di lavoro. L’indirizzo di progressiva garanzia del diritto del lavoro previsto dall’art. 4 e 35 ha portato nel tempo ad introdurre temperamenti al potere di recesso del datore, garanzie che tuttavia sono affidate alla discrezionalità del legislatore, non solo quanto alla scelta dei tempi, ma anche dei modi di attuazione, in rapporto alla situazione economica generale (Corte Costit.: 45/1965 – 194/1970 – 189/1980 – 2/1986 – 46/2000 – 541/2000 – 303/2011).
In assenza di una specifica indicazione normativa, la tutela del lavoro garantita dalla Costituzione non consente di riempire di contenuto l’art. 3 (L. 604/66). Compete al legislatore sancire se il fine sociale cui possa essere coordinata o indirizzata l’attività economica anche privata, nella scelta tra una più efficiente gestione aziendale ed il sacrificio di una singola posizione lavorativa, debba necessariamente seguire la strada di inibire il licenziamento, fermo restando che chi legifera può diversamente ritenere che l’interesse collettivo dell’occupazione possa essere meglio perseguito salvaguardando la capacità gestionale delle imprese di fare fronte alla concorrenza nei mercati e che il beneficio attuale per un lavoratore a detrimento dell’efficienza produttiva possa tradursi in un pregiudizio futuro per un numero maggiore di essi (Cass. 23630/2015).

Non spetta al giudice in presenza di una formula giuridica quale l’attuale art. 3, surrogarsi nella scelta, tenuto conto altresì della inevitabile mancanza di strumenti conoscitivi e predittivi che consentano di valutare quale possa essere la migliore opzione per l’impresa e la collettività.
In proposito, occorre rilevare che in base all’art.30, c.1 (L. 183/2010) in tutti i casi in cui le disposizioni di legge nelle materie del lavoro privato e pubblico contengano clausole generali, ivi comprese quelle in tema di recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente all’accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore.

Il concetto di situazione sfavorevole non è riportato nell’art. 3, pertanto anch’esso è un sindacato di merito effettuato dal giudice, e non solo di legittimità.
In ossequio alle interpretazioni a SS.UU. non vi è effettiva soppressione del posto nel caso in cui avvenga una mera sostituzione del dipendente con un altro lavoratore pagato meno (Cass. SS.UU.: 3353/1994 – 3899/2001 – 13516/2016). In particolare l’ultima sentenza riporta: non è vietata la ricerca del profitto mediante riduzione del costo del lavoro o di altri fattori produttivi – nell’ottica dell’art. 41 – ma il perseguire il profitto (o il contenimento delle perdite) soltanto mediante sostituzione con un altro dipendente che costa meno, malgrado la sostanziale equivalenza delle mansioni.


Morale: l'orientamento giurisprudenziale, per quanto letterale, non fa una piega ed è assolutamente sensato da un punto di vista normativo; pertanto, se siamo contrari alla possibilità di licenziare per il semplice motivo di aumentare i profitti/ridurre i costi, e non solo in caso di effettive riorganizzazioni aziendali, è necessario cambiare l'art.3 della L. 604/66.

domenica 28 agosto 2016

Riforma della tariffa elettrica

A partire dal 1° gennaio 2016 sono entrate in vigore le prime novità di quella che è la riforma della tariffa elettrica.

La riforma interesserà le circa 30 mln di utenze domestiche, indipendentemente dal fatto che siano in regime di maggior tutela o in libero mercato.

Il principio cardine della riforma è il superamento della struttura progressiva delle attuali tariffe.

Come funziona oggi?

Attualmente, l'AEEGSI fissa trimestralmente le condizioni economiche per tutti coloro che non si affidano al mercato libero. Unica distizione, sono presenti due diverse tariffe a seconda che si sia:

1) Residenti fino a 3 kW di potenza;
2) Residenti oltre i 3 kW di potenza, o non residenti (a prescindere dalla potenza).



I clienti che si rivolgono al mercato libero, invece, si troveranno offerte e contratti vari a seconda delle proposte dell'operatore.
Le condizioni del AEEGSI possono sicuramente essere usate come benchmark ma non sono assolutamente vincolanti nel mercato libero.

In media, tra le due è più conveniente la tariffa di maggior tutela, lo dice la stessa AEEGSI.

Le due tipologie hanno, però, un punto in comune: la tariffazione dei servizi di rete (trasporto distribuzione e misura) e degli oneri di sistema (costi relativi a sussidi e servizi, anche non correlati all'energia elettrica) è la stessa.

1) Tariffazione servizi di rete:

- quota energia (c€/kWh), applicata su tre scaglioni;
- quota fissa (€/anno);
- quota potenza (€/kW di potenza impegnata). 

2) Tariffazione oneri generali di sistema:

- quota energia (c€/kWh), applicata su tre scaglioni;
- quota fissa (€/anno);


Prendendo ad esempio la composizione della tariffa di maggior tutela, vediamo che si tratta di voci che vanno a determinare il 44% del prezzo finale.






Si tratta di importi significativi.


Riforma in corso

In tale contesto si è inserita l'attuale riforma della tariffa elettrica.
In particolare, ci soffermeremo sugli impatti di questi cambiamenti sulla bolletta elettrica.

La riforma in essere, infatti, sarà progressivamente attuata a partire dal 1* gennaio 2016, per entrare definitivamente in vigore dal 2018.
Il punto più rilevante per la nostra analisi è l'adeguamento del calcolo delle tariffe relative ai servizi di rete e agli oneri di sistema, in modo da superare l'attuale struttura progressiva che vede un incremento del prezzo per kWh al superamento di determinati scaglioni di consumo.

Tale progetto verrà attuato andando a modificare gradualmente - a partire dal 2016 - l'attuale struttura tramite un incremento delle quote fisse e potenza relative ai servizi di rete e oneri di sistema. In questo modo si smorzerà parzialmente la struttura progressiva di tali voci, per poi andare ad eliminarla del tutto - nel 2017 - attraverso la riduzione degli scaglioni relativi alla quota energia (e contestuale "avvicinamento" dei prezzi kWh).


Effetti

Le stime della stessa AEEGSI evidenziano che l'effetto di queste modifiche è una penalizzazione delle fasce più basse di consumo, con un contestuale sconto per quelle più alte.



N.B. ad oggi sono circa 24 mln gli utenti che consumano meno di 2.640 kWh/anno (81% del totale).



Motivazioni - parte normativa

Se la riforma va a penalizzare chi consuma poco e premia, invece, chi consuma di più della famiglia tipo (2.700 kWh/anno), perché il Governo e l' AEEGSI la sostengono?

Tutto risale al momento in cui si rende necessario recepire la Direttiva 2012/27/UE sull'efficienza energetica, tramite la legge di delegazione europea 2013 (poi legge 96/2013).

La Direttiva in sé tratta molte tematiche rilevanti, ma ai nostri fini ci interessa l'articolo 15, dove si parla della "soprressione, nelle tariffe per la trasmissione e la distribuzione, degli incentivi che pregiudicano l'efficienza generale". Questo dettato normativo generico viene poi associato da alcuni senatori (durante l'esame in assemblea) e dal Governo (che approva le mozioni di tali senatori) alla rimozione della struttura progressiva della tariffa, che viene perciò inserito tra le condizioni da implementare per garantire la completa attuazione della Direttiva 2012/27.

Dall'approvazione della legge 96/2013 fino all'emanazione del relativo decreto attuativo (Dlgs. 102/2014, art. 11) e alla successiva delibera attuativa dell' AEEGSI stessa (582/2015) viene ormai dato per assodato che questa scelta è "giustificata" dal testo della Direttiva, anche se è evidente che la Direttiva (come quasi tutte le Direttive UE) si limita a dare indicazioni generiche che dovrebbe costituire la base minima di partenza da cui iniziare.

Pertanto, va precisato (per evitare dibattiti a caso su cosa ci costringe ad approvare l' UE, etc.) che la scelta di abolire la struttura tariffaria attuale è stata interamente governativa.


Motivazioni - parte economica

Una volta chiarito questo passaggio politico-normativo, vanno analizzato le vere ragioni che hanno spinto l' AEEGSI a sostenere tale progetto.

Le ragioni sono due:
  1.  Il fatto che la quota energia - dei servizi di rete e oneri di sistema - sia applicata su diversi scaglioni con importi unitari progressivamente maggiori, va a determinare un trasferimento di gettito tra utenze domestiche, visibile dal fatto che le utenze a consumo medio maggiore pagano più del dovuto (e quindi anche per le utenze a basso consumo);
  2. La struttura di cui sopra non incentiva la diffusione di apparecchiature elettriche di ultima generazione e ad alta efficienza, ma con consumi elettrici significativi.

A entrambe le critiche io risponderei "dipende".

1) E' vero che ad oggi le utenze non "tipo" (i.e. 2.700 kWh/anno e potenza fino a 3 kW) pagano più del dovuto e, in un certo senso, pagano anche per le altre, ma va considerato che questa situazione potrebbe benissimo essere la più equa.
Infatti, questo gruppo di utenze a maggior consumo possiamo immaginarlo (ai fini della nostra analisi) come composto da due sotto-gruppi:

a) nuclei o, più probabilmente, famiglie numerose a basso reddito;

b) tutti gli altri nuclei familiari (single, coppie o famiglie) a medio-alto reddito (nel senso che possiedono una casa ampia e possono sostenerne le relative spese).

Entrambe le categorie, secondo i calcoli dell' AEEGSI, beneficerebbero di uno sconto che va dai 40 ai 260 euro l'anno (per coloro che impegnano fino a 3 kW di potenza).

Ma il primo sotto-gruppo (a), allo stato attuale, è già interamente o parzialmente compensato da tale svantaggio tramite il bonus elettrico (qualora l'ISEE lo permetta), e in ogni caso l'estensione di tale bonus è già nel progetto in questione proprio per ridurre l'effetto delle penalizzazioni della riforma sulle utenze a basso consumo!

Viceversa, il secondo sotto-gruppo non rientra in una condizione di disagio economico e possiede inoltre una casa di dimensione medio-grandi, pertanto non è meritevole di alcun sussidio o sconto, e pertanto non può essere il vero obiettivo della riforma. Infatti, un conto è sostenere l'equità formale (come questo progetto di riforma) tramite prezzi unitari uguali per tutti, un conto è migliorare l'equità sostanziale, andando a verificare anche le caratteristiche economico-sociali delle varie utenze.


2)  Il presupposto dell' AEEGSI è questo: se so che dalla fascia dei 2.640 kWh/annui (e oltre) finisco nella fascia dei 4.440 e oltre, e questo mi determina un 50% in più sul costo unitario di ogni kWh consumato, sono veramente disincetivato a utilizzare tecnologie ad alta efficienza ma ad alto consumo?

Pensiamo alle pompe di calore (citate anche dall'AEEGSI), che si sostituiscono al sistema di riscaldamento a metano, offrendo una soluzione non troppo dispendiosa ma penalizzata dagli alti consumi di elettricità.
Non è così semplice ipotizzare se un utente la percepisca troppo costosa per via del prezzo unitario progressivo, perché allo stesso tempo ad alcuni potrebbe sembrare comunque conveniente (in quanto la spesa annua per riscaldamento è in genere molto più alta di quella per l'elettricità).

Il punto è che non è certo solo la struttura tariffaria attuale il vero disincetivo all'utlizzo di tecnologie di questo tipo, e comunque sono presenti anche altri modi per incentivare azioni di questo tipo (già ampiamente sperimentati - qui e qui).


Conclusioni

Ha veramente senso stravolgere parte dell'impianto tariffario attuale per le due semplici motivazioni - e non proprio condivisibili al 100% - presentate, quando:

- sono anni che utilizziamo vari metodi alternativi di incentivo (sia diretti dedicati, che indiretti tramite detrazioni) alle tecnologie elettriche più meritevoli (e con ottime risposte da parte degli utenti, che spesso investono proprio perché riconoscono la convenienza delle stesse);

- la sbandierata intenzione di equità della riforma non valuta l'equità "sostanziale" degli effetti che si producono sulle utenze a basso consumo (81% del totale), che non rappresentano certo solo single e coppie di fighetti milanesi, ma anche nuclei familiari che vivono in medio-piccoli alloggi e generalmente medio-basso reddito.