mercoledì 24 aprile 2013

Uno sguardo alla Sanità [Parte Quinta]

Una volta esaminate debolezze e criticità del SSN è il caso di scendere più in profondità (a livello regionale), così da poter comprendere le singole situazioni (anche in ragione del fatto che la Sanità è pressoché di competenza costituzionale regionale) e confrontarle per capire dove intervenire.

Per fare una analisi di questo tipo senza esaminare ogni minimo dettaglio sanitario di ogni Regione conviene prendere come riferimento i LEA e i relativi indicatori necessari a confrontare e a dare una visione quanto più completa e comparabile possibile dei singoli sistema sanitari regionali.

E' perciò il caso di ritornare sull'argomento LEA, approfondendolo maggiormente.

Abbiamo detto che le prestazioni e i servizi inclusi nei LEA si suddividono in tre macro-aree, a loro volta composte dai relativi ambiti o sotto-aree:

  • Assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro (profilassi delle malattie infettive e parassitarie, tutela della collettività e dei singoli dai rischi connessi con gli ambienti di vita anche con riferimento agli effetti sanitari degli inquinanti ambientali, tutela della collettività e dei singoli dai rischi infortunistici e sanitari connessi con gli ambienti di lavoro, sanità pubblica veterinaria, tutela igienico sanitaria degli alimenti, sorveglianza e prevenzione nutrizionale, attività di prevenzione rivolte alla persona come vaccinazioni obbligatorie e raccomandate, servizio medico-legale);
  • Assistenza distrettuale (medicina di base e pediatria di libera scelta in forma ambulatoriale e domiciliare, continuità assistenziale notturna e festiva, guardia medica turistica, assistenza farmaceutica erogata direttamente o attraverso le farmacie territoriali, assistenza integrativa (fornitura di alimenti dietetici a categorie particolari, fornitura di presidi sanitari ai soggetti affetti da diabete mellito, assistenza specialistica ambulatoriale, assistenza protesica (fornitura di protesi e ausili a favore di disabili fisici, psichici e sensoriali, assistenza domiciliare, consultori familiari, servizi di salute mentale, servizi di riabilitazione ai disabili, servizi a persone dipendenti da sostanze stupefacenti o psicotrope o da alcool, assistenza domiciliare a pazienti nella fase terminale, assistenza alle persone con infezione da HIV, residenze e centri diurni per persone anziane non autosufficienti, comunità terapeutiche e centri diurni per persone dipendenti da sostanze stupefacenti o psicotrope o da alcool, comunità terapeutiche e centri diurni per persone con problemi psichiatrici,  residenze e centri diurni per la riabilitazione di persone disabili, hospice per pazienti nella fase terminale, residenze per le persone con infezione da HIV, assistenza termale);
  • Assistenza ospedaliera (pronto soccorso, degenza ordinaria, day hospital, day surgery, interventi ospedalieri a domicilio - in base ai modelli organizzativi fissati dalle Regioni -, riabilitazione, lungodegenza, raccolta, lavorazione, controllo e distribuzione degli emocomponenti e servizi trasfusionali, attività di prelievo, conservazione e distribuzione di tessuti, attività di trapianto di organi e tessuti).

Il D.M. 12 dicembre 2001 si occupa di definire un set di indicatori per monitorare sia i livelli essenziali sia il contesto regionale.

A noi invece interessano i 27 indicatori elaborati dal Comitato LEA (per l'anno 2010, ultimo anno disponibile) per verificare l'adempimento e il mantenimento dei livelli minimi e per evidenziare punti forti e debolezze regionali.
Sommando i relativi punteggi (ponderati) si ha un indicatore globale che fornisce una misura del mantenimento dei LEA nella Regione di riferimento (esclusi Trentino, Friuli, Valle d'Aosta e Sardegna, di cui comunque solo la Sardegna sottoposta a Piano di Rientro).
Questa la situazione nel 2010:

  • Emilia, Umbria, Marche, Toscana, Veneto, Piemonte, Lombardia e Basilicata sono risultate adempienti;
  • Liguria e Abruzzo sono risultate adempienti ma con "impegno su alcuni indicatori";
  • Molise, Lazio, Sicilia, Calabria, Campania e Puglia sono risultate inadempienti.

Di queste, solo Lombardia, Umbria, Marche e Abruzzo presentano un sistema sanitario economicamente in pareggio (oppure con ricavi maggiori dei costi), su dati 2011, viceversa considerando anche le imposte pagate (poi utilizzate anche a tal fine), le uniche Regioni in rosso rimangono la Sardegna, Campania, Molise e Calabria.

Da questi due risultati (tecnico ed economico) si evince chiaramente che la ricchezza regionale è un fattore determinante per tenere in piedi il sistema sanitario regionale, perciò quasi tutte le Regioni più ricche riescono in un certo senso a cavarsela in questo modo (come suggerito qui).

Eppure non si spiega come mai anche confrontando le Regioni economicamente più ricche e stabili (per quanto riguarda la Sanità e la ricchezza pro capite) vi siano differenza notevoli in termini di gestione e mantenimento dei LEA. Buona parte delle differenze sarà dovuta sicuramente a fattori quali la mala gestione, la corruzione, lo spreco, l'eccessivo indebitamento e così via, però per esserne sicuri è meglio controllare cosa ne pensa la Corte dei Conti.
In realtà, al riguardo, troviamo sempre gli stessi problemi e gli stessi fattori che messi assieme creano una situazione sanitaria regionale critica. In sostanza il fattore "buon Governo" gioca un ruolo sicuramente importante, soprattutto a livello di stabilità economica, ma più in generale l'aumento generalizzato dei costi (drasticamente ridotto con la spending review), la mala gestione della spesa sanitaria (soprattutto al Sud), l'indebitamento degli enti sanitari o della Regione stessa (quasi una prassi consolidata fino a pochi anni fa, non per motivi di carenza di liquidità ma proprio per il fatto stesso di avere tale possibilità e disporre così di ancor più soldi a disposizione), nonché la ricchezza e la tassazione regionale hanno determinato una situazione singolarmente molto varia ma nel complesso instabile (perché le Regioni virtuose sono indirettamente chiamate a coprire le perdite delle altre).

Buona parte dei fattori indicati sono già presenti nella Parte Terza, o comunque la Parte Terza è sicuramente parte integrante di quest'ultimo paragrafo.

Molto banalmente questo è il contesto che ha determinato lo scenario negativo attuale. Era piuttosto evidente e di senso comune, però visto che la Corte dei Conti ce lo conferma, ora possiamo dimostrarlo "empiricamente". Ma soprattutto vige come al solito il "fattore Italia", per cui i soldi ci sono e la spesa è perfino inferiore ai livelli europei (nel caso Sanità) però viene mal gestita ed è nel complesso inefficiente.

giovedì 18 aprile 2013

Uno sguardo alla Sanità [Parte Quarta]

E ora i problemi...

Domanda di partenza: come ha fatto la spesa sanitaria ad andare così fuori controllo e il SSN a diventare così inefficiente in termini di tempi e prestazioni?

Quanto meno la vertiginosa spesa previdenziale (un'altra voragine di bilancio) aveva come giustificazione le ampie concessioni fatte dallo Stato che hanno mandato in malora i conti, ma nel caso della Sanità il colpevole non è altro che il solito lassismo delle Regioni (e dello Stato), che non si sono mai preoccupate di contenere attivamente tali spese per evitare scontri e contrapposizioni, nonché l'allungamento dell'aspettativa di vita nei paesi avanzati.

Questo non era difficile da capire ed è uniformemente accettato.

Situazioni ottimali e criticità nella Sanità (soprattutto da un punto di vista economicistico):
Innanzitutto la spesa è aumentata enormemente in un lasso di tempo piuttosto breve, passando da 48 mld nel 1995 ai 108 del 2012 che abbiamo già citato; ma soprattutto questo incremento è stato doppio rispetto al PIL (come dire che non è stato giustificato - e "coperto" - solo dalla crescita economica), infatti ad eccezione del 2007, 2010 e 2012 la variazione percentuale della spesa sanitaria sul PIL rispetto alla variazione del PIL stesso è sempre stata maggiore di quest'ultimo, e solo dopo le riduzioni effettuate tramite la spending review è stato rimesso in sesto l'incidenza di tale voce di spesa (al 7,1% del PIL nel 2011, ma prevista in diminuzione per via delle manovre effettuate fino al 6,87% del 2015).

In secondo luogo le differenze regionali sono enormi: sempre su dati 2011, vediamo che solo cinque Regioni riescono a mantenere in equilibrio il settore sanitario prima che vengano pagate le imposte dai cittadini (e sono Lombardia, Veneto, Umbria, Marche e Abruzzo); vi sono Regioni come Campania, Calabria e Molise che  sono state commissariate e presentano una situazione disastrosa anche dopo la copertura tramite le tasse; vi sono Regioni come la Sardegna e la Liguria che hanno recentemente completato il piano di rientro e sono uscite dal commissariamento, salvo il fatto che la prima è tuttora pesantemente in rosso, mentre la seconda riesce a rimanere a galla tramite le coperture; un caso a parte vale per il Lazio che ha un buco spaventoso, ma riesce a coprirlo grazie alle entrate.
Vale infatti un riferimento universale: le Regioni più ricche, proprio grazie alla ricchezza dei loro cittadini, riescono a coprire più facilmente i disavanzi generati dalla Sanità (dando l'impressione di avere i conti in ordine), e in secondo luogo il commissariamento produce risultati positivi (in termini di gestione di risorse) obbligando la Regione a riassestare i conti (anche se non è detto che una volta terminato la Regione non possa di nuovo intraprendere un percorso "pericoloso", si veda la Sardegna).

Per quanto concerne il valore di spesa in se, bisogna ammettere che la nostra situazione è ben messa rispetto agli altri paesi europei, con l'unica eccezione della Spagna che fa un "pelino" meglio di noi.

L’indebitamento complessivo rettificato per le partite debitorie infraregionali (costituito da mutui, debiti verso fornitori, debiti verso aziende sanitarie extra regionali ed altre tipologie d’indebitamento) ammonta nel 2010 a 53 miliardi di euro circa (52,9 al netto dei debiti verso aziende extra regionali); al suo interno le passività verso i fornitori costituiscono nettamente la voce di maggior peso, toccando nel 2010 i 35,6 miliardi di euro.
Su questo punto il decreto sblocca-pagamenti dei debito commerciali dello Stato servirà a migliorare un po' la situazione (anche se la presenza di poca liquidità e la presenza di debiti sanitari fuori bilancio ne rallenteranno l'efficacia in ambito sanitario).


Per quanto riguarda le singole voci della spesa sanitaria, i dati 2011 indicano una spesa di 36,1 mld per il personale, 34 mld di acquisto di beni e servizi (compresi accantonamenti e oneri diversi di gestione), 6,6 mld per la medicina di base, 9,9 mld per la farmaceutica convenzionata, 4,6 mld per le prestazioni di assistenza specialistica convenzionata e accreditata, 1,9 mld per le prestazioni private di assistenza riabilitativa, altri 1,9 mld per prestazioni integrative e per la protesica convenzionata e accreditata, 6,4 mld per altra assistenza da privati accreditati, 8,9 mld per l'assistenza ospedaliera privata. 
Il totale è leggermente più alto del livello di spesa indicato per il 2011 (107 mld circa) per via di minori finanziamenti dovuti ad interventi di legge.

Sempre per quanto riguarda la spesa in sé, le variazioni più significative arrivano in seguito alle misure di contenimento prese dal Governo Monti, in particolare sui consumi intermedi (una riduzione del 10% dei corrispettivi per l'acquisto di beni e servizi, con esclusione dei farmaci ospedalieri, e dei corrispondenti volumi d'acquisto per tutta la durata dei contratti già attivi, con la possibilità per le Regioni di adottare misure alternative di contenimento detta spesa; l‘obbligo, per le aziende sanitarie di rinegoziare con i fornitori i contratti per l‘acquisto di beni e servizi se i prezzi unitari sono superiori al 20% rispetto a quelli di riferimento; la fissazione del un tetto alla spesa per l'acquisto di dispositivi medici al 4,8%; la rideterminazione del tetto sulla spesa farmaceutica ospedaliera al 3,5% con la fissazione al 50% della quota di ripiano dello sfondamento del tetto a carico delle aziende farmaceutiche, ossia il c.d. payback), sulla spesa farmaceutica (all'interno delle prestazioni acquistate da produttori privati, in riduzione del 4,6% in seguito all'incremento dello sconto a carico dei farmacisti alla rideterminazione del tetto della spesa territoriale al 11,35%, con payback in caso di superamento), e le altre prestazioni (riduzione in misura percentuale fissa degli importi e dei corrispondenti volumi di acquisto di prestazioni di assistenza specialistica e ospedaliera da erogatori privati accreditati per ridurre la spesa complessiva annua dell'1% rispetto al 2011).

Dal 2001 in poi, fino ad oggi, si conferma la tendenza a realizzare ASL con bacini di utenza a livello provinciale (e nel caso delle Marche addirittura unico per tutta la Regione), così da determinare un evidente risparmio di costi (e a seconda della grandezza anche maggiore efficienza). 

Il problema dell'inflazione sanitaria: ossia una differenza sistematica (e superiore) dei prezzi della sanità rispetto alla variazione del livello generale dei prezzi. Tale differenziale dipenderebbe in  larga misura dai costi connessi con il progresso tecnologico e la rapida obsolescenza delle  apparecchiature sanitarie. 

I notevoli aumenti di prezzi e tariffe necessari per riordinare i conti della Sanità, combinati con i tempi abnormi e i diffusi casi di malasanità anche nelle Regioni del Nord, hanno incrementato negli ultimi anni la domanda di "Sanità" verso le strutture private, almeno per chi poteva; un risultato questo che è ovviamente accentuato nelle Regioni sottoposte a piani di rientro.

Come ciliegina finale è il caso ovviamente di citare un problema che noi cittadini sperimentiamo quotidianamente: i tempi biblici di attesa. Su questo punto non c'è molto da dire, ma molto semplicemente il sovraccarico di "codici bianchi" nei pronti soccorsi, dei pensionati allarmati dal medico di base e delle conseguenti prescrizioni continue per renderli meno ansiosi provoca un certo grado di intasamento per tutti quegli esami che vanno oltre il semplice controllo del sangue (ma anche sull'esame del sangue le cose non vanno certo per il verso giusto). 
Questo punto mi sento di definirlo il più evidente e fastidioso, e deriva sostanzialmente da una classica iper-domanda di salute che non viene soddisfatta in tempi congrui, visto il limite dell'offerta disponibile. C'è soltanto da aggiungere che molti hanno individuato un'altra causa, in parte sopra tratta, nella prescrizione di molti più esami di quelli necessari, anche per via di una tendenza (sempre più attuale) del medico a difendersi da potenziali critiche e casi di malasanità, evitando responsabilità di tipo penale e personale, ma sovraccaricando il sistema.









mercoledì 17 aprile 2013

Uno sguardo alla Sanità [Parte Terza]

Ora che abbiamo un'idea di massima sull'organizzazione e funzionamento del SSN è il caso di approfondire la parte più squisitamente economica.

Finanziamento
Lo Stato determina annualmente il fabbisogno del SSN, finanziandolo tramite le imposte regionali (IRAP e addizionale regionale IRPEF) che nel 2011 hanno contribuito per 38,1 mld; entrate delle aziende pubbliche (ticket e attività intramoenia dei medici) per 3 mld, compartecipazioni delle Regioni a Statuto Speciale (RSS) per 10,5 mld, e per la parte eventualmente residuale interviene lo Stato tramite compartecipazioni all'IVA, alle accise sui carburanti e al Fondo Sanitario Nazionale (FSN, che in realtà è stato abolito nel 2000, ma sopravvive indirettamente tramite accordi Stato-Regioni sulla ripartizione delle risorse) per 53,8 mld (più altri 4 di altri trasferimenti).
Per il 2012 si parla di circa 108 mld di quota a carico dello Stato, di cui circa 106 per il finanziamento dei LEA. Questo perché il totale viene suddiviso in due quote: la prima destinata ai LEA e ripartita tra le Regioni in base alla quota capitaria (popolazione) pesata su alcuni indicatori più specifici (oltre a età, sesso, frequenza, residenti, mortalità e vari indicatori si tiene anche conto della mobilità interregionale), mentre la seconda quota è destinata al finanziamento di specifici progetti (tutela della salute, campagne di informazione ecc....per un importo di 1,45 mld nel 2012).

La compartecipazione dei cittadini, oltre che in termini di tasse e spese (di bilancio), si può misurare in base al costo dei ticket per un totale di circa 4 mld. Attualmente i ticket riguardano le prestazioni specialistiche, di pronto soccorso, farmaceutiche (solo per le Regioni che lo hanno deciso) e termali, prevedendo ovviamente esenzioni per basso reddito, invalidità, situazioni particolari (gravidanza, diagnosi HIV...) o malattie rare.

Da notare che nel 2014 era previsto la reintroduzione del ticket nazionale, in aggiunta a quello regionale, per le prestazioni farmaceutiche e tutte quelle del SSN; una sentenza della Corte Costituzionale ha però bocciato questa norma per questioni di competenza (competenza su funzioni costituzionali, tra Stato e Regioni).

Data la situazione sanitaria fuori controllo in molte Regioni italiane, dal 2006 è stato proposto un Patto per la Salute cioè un accordo triennale programmatico Governo-Regioni in merito alla spesa, alla programmazione, ai Piani di Rientro (rientro dal deficit per le Regioni con una spesa sanitaria fuori controllo), compartecipazione al ri-equilibrio del costo della Sanità a livello regionale (in particolare tramite l'obbligo di aumentare IRAP e addizionali IRPEF in caso di sforamenti), fissazione di tetti massimi di spesa e stanziamenti straordinari in conto capitale per finanziare investimenti in questo campo.
In seguito a tali Piani di Rientro non rispettati si è giunto al commissariamento di Lazio, Campania, Abruzzo, Molise e Calabria, ossia sono state innalzate al massimo le aliquote IRAP e addizionali IRPEF, imposti limiti strettissimi di spesa sanitaria ed elaborati piani per il riordino della sanità regionale.
Ora come ora neanche il Piemonte se la passa bene, infatti fino a qualche giorno fa si temeva il commissariamento del Governo per via della disastrosa situazione sanitaria, poi fortunatamente la "clemenza" ha preso il sopravvento ed è stata concesso alla Regione maggior tempo e particolari risorse (fondi FAS in sostanza) per rimettere a posto i conti, pur richiedendo comunque l'aumento dell'addizionale IRPEF (anche se dal 2014).










martedì 16 aprile 2013

Uno sguardo alla Sanità [Parte Seconda]

Nell'attuale quadro istituzionale il Governo determina i Livelli Essenziali di Assistenza (d'ora in poi LEA), ossia le prestazioni minime che devono essere garantite uniformemente a tutti i cittadini (e non) su tutto il territorio, mentre le Regioni si occupano della gestione e della programmazione della Sanità in piena autonomia (senza scendere al di sotto dei LEA, ma libere di fornire prestazioni minime di più alto "livello").

I LEA sono articolati su tre macro-aree di intervento:
  • Assistenza sanitaria collettiva in ambiente di vita e di lavoro (che comprende in particolare attività di tutela e prevenzione, sanità veterinaria e servizi medico-legali);
  • Assistenza distrettuale (in particolare l'assistenza sanitaria di base e l'assistenza farmaceutica);
  • Assistenza ospedaliera (pronto soccorso, attività ospedaliera ecc...)
Per poter accedere alle prestazioni del SSN bisogna essere iscritti all'apposito registro, così da ricevere la tessera sanitaria, la quale permette di accedere alle varie prestazioni.
Per accedere alle prestazioni LEA, ad eccezione del 118 e pronto soccorso, è necessario avere una prescrizione del medico o altro specialista (una "ricetta") e il pagamento di un ticket (se previsto).

Nell'ambito della programmazione, il SSN è caratterizzato da un Piano Sanitario Nazionale triennale (che indica le aree di intervento, i LEA, i progetti-obiettivo da realizzare, nonché le esigenze in materia di ricerca biomedica e sanitaria applicata) e da vari Piani Sanitari Regionali (dove sono delineati gli interventi, le esigenze specifiche in relazione al piano nazionale e ai bisogni della popolazione regionale).
Le Regioni si servono delle Aziende Sanitarie Locali (d'ora in poi ASL) e delle Aziende Ospedaliere (se presenti, di cui parlerò più avanti), per organizzare la fornitura dei servizi, ossia di aziende pubbliche sottoposte agli obblighi di pareggio di bilancio ma con maggiore autonomia imprenditoriale (in ogni caso non bisogna dimenticare che sono le Regioni a nominare i direttori generali delle ASL). Il bacino di competenza di ogni ASL (cioè la dimensione del distretto di riferimento) dipende da Regione a Regione.

La medicina di base è regolata da convenzioni triennali tra medici e SSN, con dei limiti previsti in termini di pazienti seguiti (1500 massimo per ogni medico di base, 800 per ogni pediatra) e con una retribuzione pro capite per ogni paziente in parte fissa (la cui quota però varia a seconda dell'anzianità, caratteristiche cliente e altri fattori) e in parte variabile (in relazione al raggiungimento degli obiettivi previsti).

Il prezzo dei farmaci rimborsati dal SSN (tranne quelli "da banco") sono determinati attraverso una negoziazione tra le aziende farmaceutiche e l'Agenzia Italiana del Farmaco (d'ora in poi AIFA), seguendo i criteri dettati dal CIPE, i quali tengono conto del costo, dell'efficacia, dei rischi e benefici, dei prezzi europei e dei consumi. 
In relazione a questa procedura c'è da sottolineare una rilevante novità introdotta a partire dal 2013, per cui il tetto massimo di spesa per la farmaceutica territoriale è fissato al 12,5% (ed eventuali sforamenti saranno posti per il 35% a carico delle aziende farmaceutiche e per il 65% a carico delle Regioni sulla base dei rispettivi fatturati).
I farmaci sono divisi in due classi, quelli di fascia A, essenziali e forniti gratuitamente a tutti i cittadini salvo la possibilità delle Regioni di applicare ticket, e quelli di fascia C, a totale carico dei cittadini (salvo la possibilità per il contribuente di detrarre dalle imposte il costo del ticket e dei farmaci non rimborsati).

L'offerta di servizi è affidata alle aziende pubbliche (presidi gestiti dalle ASL, Aziende Ospedaliere - AO -, Aziende Universitarie - AU -) e alle aziende private convenzionate. E' sempre necessaria la preventiva autorizzazione e accreditamento regionale.
Dopo l'autorizzazione viene stipulato un accordo contrattuale per fissare i corrispettivi che l'ASL verserà alle strutture, definiti sulla base di un sistema a tariffa in vigore dal 1995 (Diagnostic Related Groups, DRG) per cui viene rimborsata una tariffa standard per ogni caso di una determinata natura.

Data l'ampia libertà delle Regioni nel determinare tali tariffe (se superiori, però, vanno a loro carico), si sono distinte in Italia due realtà sanitarie o modelli differenti (Corso di Scienza delle Finanze, 2012, Il Mulino):
un modello di concorrenza negoziale (che tende a distinguere più nettamente tra finanziatore e fornitore, scorporando gli ospedali dalle ASL, affidandosi prevalentemente al meccanismo dei rimborsi, massima libertà di scelta del cittadino, meccanismi di controllo soprattutto ex post) di cui la Lombardia è l'esempio più evidente, e un modello di concorrenza amministrata (più diretto alla definizione ex ante dei programmi di attività delle aziende accreditate, una più ampia programmazione dell'offerta, premi e punizioni in caso di sconfinamenti dagli obiettivi, forte direzione e intervento della Regione e delle ASL verso le aziende accreditate) di cui l'Emilia, la Toscana e il Veneto sono i principali esempi.














Uno sguardo alla Sanità [Prima Parte]

La Sanità italiana ha come punto di riferimento il Sistema Sanitario Nazionale (d'ora in poi SSN), che ha lo scopo di garantire a tutti i cittadini l'accesso alle prestazioni sanitarie.
I fondamenti giuridici del Sistema derivano dall'art. 32 della Costituzione e della legge istitutiva del SSN (legge 833 del 1978).

Come si può capire dalla data di attuazione pratica in legge dei principi costituzionali, cioè il 1978, prima di allora non vi era un'organica ed ampia struttura adibita a tale scopo ma erano i singoli Enti Mutualistici / Società di Mutuo Soccorso (una per ogni categoria di lavoratori) ad occuparsi dell'assicurazione sanitaria  (cui contribuiva il lavoratore, per sé e per i propri familiari), evidenziando così un sistema dove la prestazione era garantita solo ai lavoratori (che contribuivano).
Nel 1968 gli ospedali furono trasformati in enti pubblici, disciplinandone funzioni, finanziamento e organizzazione nazionale e regionale (precedentemente erano gestiti dai singoli enti di assistenza e beneficenza).
Si può dire che antecedentemente a tale riforma era in vigore un modello sanitario mutualistico a rimborso (cioè gestito da enti mutualistici tramite i contributi dei lavoratori), e successivamente si è affermato il modello pubblico integrato (predominanza pressoché totale del pubblico e scarsi margini di scelta per il singolo), fino ad arrivare al modello contrattuale attuale (finanziamento pubblico, larga offerta pubblica, presenza del privato tramite convenzioni, ampia libertà di scelta del singolo).

Nel 1978 fu istituito il SSN, garantendo tre principi di base:

  1. universalità delle prestazioni (cioè verso tutti), 
  2. uguaglianza (cioè senza distinzioni),
  3. equità (cioè parità di accesso in rapporto a uguali bisogni).

Viceversa i principi organizzativi per l'organizzazione del Sistema sono:
la libertà di scelta del luogo di cura, il diritto ad essere informato sulla malattia, il diritto ad essere informato sulla terapia dando il consenso o meno, il diritto del paziente ad essere "preso in carico" dal medico, il diritto alla riservatezza, il dovere del SSN di tutelare la salute dei cittadini compatibilmente con le risorse disponibili, la valorizzazione della professionalità degli operatori sanitari, l'integrazione tra l'assistenza sanitaria e l'assistenza sociale.

Le riforme più significative all'interno del SSN stesso avvennero negli anni '90 fino ai primi del 2000, con la separazione della funzione di tutela della salute dalla produzione delle prestazioni sanitarie (affidate a erogatori pubblici e privati), una maggiore autonomia gestionale degli ospedali in ambito regionale, l'introduzione di un sistema a tariffa, l'introduzione di livelli minimi delle prestazioni, la maggiore apertura verso l'ingresso di operatori privati, nonché maggiori meccanismi sanzionatori e di controllo della spesa.
















sabato 13 aprile 2013

Riduzione del debito pubblico e coinvolgimento dei cittadini

Sì, il titolo non è un granché e forse è troppo lungo ma è difficile sintetizzare la proposta che ho elaborato per ridurre il debito pubblico, così che l'UE smetta di insistere con l'austerità, e contestualmente utilizzare strumenti non convenzionali come il coinvolgimento dei singoli cittadini (visto che per gli strumenti convenzionali non ci sono soldi e serve molto più tempo).

Recentemente il Governo Monti ha introdotto la possibilità di effettuare una "donazione" allo Stato per l'abbattimento del debito pubblico, donazione che viene portata in detrazione (minori tasse) nei vari modelli di dichiarazione fiscale (730 e Unico) per un importo pari al 19% della donazione:
per es, dono 1000 euro e nella dichiarazione ho diritto ad avere minori tasse per 190 euro (19%).

In un periodo del genere, pensare che qualcuno abbia davvero soldi e soprattutto sia intenzionato a buttare denaro per ridurre di qualche milione il debito pubblico è impensabile, e in generale questo provvedimento è un enorme fallimento (a meno che non siano veicolati nel fondo i risarcimenti per danni erariali nei confronti dello Stato, con il coinvolgimento della Corte dei Conti).
Anche dal punto di vista economico vale la pena di mostrare le lacune del progetto: se io dono 10 milioni allo Stato per questo fine ho diritto a minori tasse per 1,9 milioni, di conseguenza lo Stato ha minori incassi per 1,9 milioni (per via del costo di questa agevolazione) perciò l'ammontare finale che finisce a diretta riduzione del debito è di "soli" 8,1 milioni.

Ora che abbiamo ridicolizzato un po' Monti possiamo passare avanti...

Il problema di fondo è trovare un modo per coinvolgere i cittadini nel progetto di riduzione del debito pubblico, che si rifà al più esteso intento di "austerità" richiesto dall'UE per paura di non riuscire più a gestire la situazione (come se prima fosse riuscita a gestirla...).
Perché coinvolgere i cittadini? Per il semplice fatto che i mezzi tradizionali di riduzione del debito sono lenti (il pareggio di bilancio richiederà almeno qualche anno per dare i primi frutti e il Fiscal Compact richiederebbe risorse che attualmente non ci sono) e soprattutto anche se riguardano il bilancio dello Stato, in realtà colpiscono direttamente e indirettamente tutti noi contribuenti e non (per cui noi siamo in un certo senso già coinvolti).

Premessa
Per valore nominale di un titolo si intende il valore teorico di base del titolo stesso, che corrisponde al prezzo di acquisto iniziale del titolo e al rimborso finale ma non è detto che corrisponda al prezzo di vendita nel periodo intermedio (nella maggior parte dei casi, tra cui questo), per esempio: lo Stato emette BTP per un valore nominale di 1.000 euro l'uno (che corrisponde al prezzo di acquisto) e mi garantisce un determinato rendimento annuo più il rimborso finale del valore nominale (1.000 l'uno) alla scadenza; se però io vendo il titolo prima della scadenza sul mercato è possibile che il prezzo di vendita sia 1090 (oppure inferiore al valore nominale), tutto dipende dal valore che il mercato gli attribuisce (valore che probabilmente differisce da 1.000 euro perché vengono considerati fattori come le commissioni, i volumi di scambio e notizie negative).
Per detrazione fiscale si intende una somma che può essere portata in diminuzione del reddito al momento della dichiarazione fiscale annuale; tale somma non può MAI superare le tasse stesse, diventando un credito verso lo Stato: se devo pagare 5.000 euro di tasse ma ho diritto a detrazioni (da lavoro dipendente, da affitto, da spese mediche ecc) per 6.000, potrò detrarre solo 5.000 euro.
Gli interessi corrisposti dallo Stato sui titoli di debito pubblico quotati (BTP, BOT, CCT ecc) sono assoggettati ad un'imposta del 12,5% alla fonte (cioè lo fa la banca presso cui abbiamo il conto, senza che noi dobbiamo dichiarare niente e senza che questi interessi vadano a formare il reddito complessivo su cui paghiamo le imposte), sono proprio tassati a parte rispetto al resto.

Cosa fare?
Ampliamo il meccanismo della detrazione fiscale (minori tasse) in un modo conveniente per il cittadino e per lo Stato, prendendo come riferimento il possesso di titoli di Stato quotati (BTP, BOT ecc).
Per es, guadagno 25.000 euro l'anno (su cui pago l' IRPEF per 6.150 euro) e ho 5.000 euro di titoli di Stato (si ricordi che ogni titoli di Stato ha un valore di base di 1.000 euro) che mi danno il 4% l'anno ciascuno;
Sviluppiamo nel tempo questa situazione: nel 2012 avrei perciò un'entrata di 200 euro (interessi dei titoli di Stato, 4%*5.000) che diventano 175 al netto delle imposte sui tali titoli (12,5% del guadagno cioè 200) e infine avrei un'uscita di 6,150 euro di imposte.
A questo punto lo Stato potrebbe proporre a tale cittadino di rimborsargli subito il 60% del valore nominale dei titoli che possiede (3.000, la metà di 5.000), chiedendo in cambio l'annullamento del titolo, non pagando gli interessi nell'anno in questione e contestualmente dandogli però la possibilità di detrarre dalle imposte l'ammontare di soldi persi (gli altri 2.000 euro).

Riepilogando:
nell'ipotesi in cui l'individuo non aderisce a tale iniziativa, guadagnerebbe (oltre al suo normale reddito) 175 euro di interessi sui titoli (200 meno 25 di imposte) e pagherebbe imposte per 6.150 euro (normali imposte sul reddito, che non dipendono da quanti titoli abbia o robe simili), per cui il suo reddito complessivo del 2012 passerebbe da 25.000 a 19.025 (- 6150, + 175), sempre con i suoi 5.000 euro di risparmi investiti in BTP;
viceversa l'individuo che accetti, a parità di reddito (25.000), non avrebbe più i 175 euro di interessi (perché se usufruisce della detrazione non potrà beneficiarne), non avrà più BTP (in quanto rimborsati) e avrà 3.000 euro di risparmi (perché il rimborso è stato solo del 60%), però avrà tasse da pagare per 3.650 euro, il che porta ad una situazione di fine anno in cui da 25.000 euro passa a 20.850 (-6.150, +2.000)!
Per cui la situazione patrimoniale-finanziaria del cittadino, nel primo caso consiste in 19.025 euro di reddito più 5.000 euro di investimenti/titoli, mentre nel secondo caso consiste in 20.850 di reddito e 3.000 euro di investimenti/titoli.
A fine anno la seconda opzione comporta 175 euro in meno per chi la scegliesse, per cui per rendere effettivamente accattivante questo strumento possiamo prevedere un'ulteriore detrazione nell'anno successivo, pari al 10% della detrazione precedentemente utilizzata (in questo caso si tratta di 200 euro di detrazione nel secondo anno).
In tal modo lo svantaggio iniziale viene interamente compensato, anche se bisogna dire che in realtà tale svantaggio era molto minore, perché nel primo scenario non era stata tenuta in considerazione la spesa sostenuta per le commissioni sull'acquisto dei titoli (di circa 120-150 euro), perché abbiamo semplicisticamente ipotizzato che i titoli fossero già in possesso dei cittadini.

Dal punto di vista dello Stato come funziona?
Semplicemente lo Stato si troverà ad avere minori entrate per 2.025 (2.000 euro di detrazioni e 25 di imposte sugli interessi), minori uscite per 200 (gli interessi sui titoli, che ora non ci sarebbero più) e minore debito pubblico per 5.000 euro.
In totale si avranno minori entrate per 1.825, un esborso esclusivamente finanziario per 3.000 euro e una riduzione del debito per 5.000.

Può sembrare poco conveniente dal punto di vista statale, però se anche pensassimo che i 1.825 di minori entrate lo Stato sia costretto a rimpiazzarli emettendo nuovo debito pubblico, l'incremento di debito che ne deriverebbe sarebbe comunque maggiore della riduzione avutasi tramite questo strumento (1.825 di maggior debito è minore dei 5.000 in meno acquisiti).

Senza dimenticare un particolare importante:
tutto questo l'abbiamo ipotizzato soprattutto in funzione del rispetto dei rigidi parametri europei su deficit e debito pubblico (soprattutto sul deficit, visto il nostro debito pubblico è comunque più del doppio del limite consentito), infatti facendo riferimento alle regole europee ESA95 per la redazione dei bilanci delle  amministrazioni pubbliche e per la determinazione del debito e del deficit possiamo essere sicuri che anche nel caso di scenario negativo (le minori entrate sono quasi completamente da sostituire con maggiore indebitamento) tale ricorso al mercato non andrebbe a incidere sul deficit totale (ma solo sul debito), permettendo quindi un miglioramento non solo sostanziale ma anche formale (tramite il normale rilevamento annuale) tale da renderci inattaccabili di fronte alle istanze critiche sovranazionali.

A quanto potrebbe ammontare il risparmio pubblico?
Se prendiamo a riferimento i dati 2013 possiamo supporre che a fronte di oltre 1.685 mld di titoli di Stato quotati (al 31 marzo 2013), a gennaio 2013 circa 200 mld sono in mano a residenti (imprese e cittadini, escludendo le banche e le altre istituzioni finanziarie), ossia il 12% circa.
Se applichiamo questa percentuale agli interessi annualmente corrisposti sul debito pubblico (90 circa previsti per il 2013), allora si parla di 10-11 mld potenzialmente "attaccabili".
Ovviamente è necessario mettere un limite alle richieste di detrazione altrimenti il bilancio pubblico non regge, per cui si può ipotizzare al massimo una detrazione per ogni singolo cittadino di 51.000 euro massimo (pari cioè a 85 titoli dal valore di 1.000 euro l'uno, rimborsati al 60%).

Questo è lo scenario ipotizzabile nel 2013
Richieste di annullamento e quindi riduzione del debito per un totale di 30 mld di titoli (volontario oppure imposto dal Governo come tetto massimo 2013), minori interessi per 1,2 mld circa, 18 mld di entrate tributarie in meno, 12 mld di esborso finanziario immediato (o quasi).
L'elemento più oneroso è l'esborso immediato perché costringe lo Stato a privarsi di liquidità di riserva, per cui è il caso che siano utilizzati le entrate destinate al Fondo per l'Ammortamento dei titoli di Stato, i proventi derivanti dal Fondo Patrimoniale per la dismissione del patrimonio pubblico ed eventuali erogazioni di liberalità a favore dell' ammortamento del debito (anche perché tali proventi hanno lo stesso fine della mia proposta, cioè ridurre il debito).
Nel caso in cui non fossero sufficienti a coprire l'esborso iniziale di 12 mld, sarà il caso di ricorrere all'indebitamento a breve termine (meno costoso, per es. BOT) per la parte eccedente "non coperta" e/o prevedere che tale detrazione sia valevole solo ogni due anni (quindi nel 2013, poi nel 2015 ecc) oppure debba essere suddivisa su due anni (la detrazione viene utilizzata nel 2013-14) così che i 18 mld di detrazioni potenziali siano più facilmente spalmabili e si eviti il sovrapporsi delle scadenze del rimborso con quelle della detrazione, raddoppiando l'onere a carico dell'Erario (anche perché dobbiamo tener presente che quando si utilizza una detrazione nella dichiarazione fiscale, questa deve essere riferita ad un evento o reddito sviluppatosi nell'anno precedente: per cui solo chi avrà richiesto l'annullamento dei titoli nel 2013 potrà portarlo in detrazione nella dichiarazione 2014 riferita ai redditi 2013).
Per essere ancora più sicuri riguardo alla copertura finanziaria totale (sia detrazione sia il pagamento dei titoli) possiamo prevedere una rideterminazione delle varie tax expenditures (cioè l'insieme delle detrazioni e deduzioni fiscali concesse dall'Erario) così da garantirsi maggiore copertura tagliando/riducendo quelle meno utili.

Complicato ma vantaggioso...





venerdì 5 aprile 2013

About: Credit Crunch

Che cos'è la contrazione del credito?
Semplicemente una riduzione dei prestiti da parte delle banche a famiglie e imprese.

Come mai se ne parla spesso?
In momenti di crisi economica capita che il sistema finanziario sia più debole, soprattutto se è direttamente responsabile della crisi (come quello americano e inglese), per cui la normale attività di prestito da parte delle banche ne risente.
Semplicemente: la gente ha meno soldi--> i depositi diminuiscono e/o i prestiti già concessi non vengono ripagati--> le banche perdono i requisiti minimi di solidità richiesti o peggio ancora falliscono-->lo Stato deve intervenire per salvarle.

Come mai è sofferto soprattutto nei paesi più colpiti dalla crisi?
Proprio perché il sistema economico di queste nazioni è più provato, non riesce a riprendersi e trascina con sé anche il settore bancario.
Questo discorso però non vale per i paesi quasi completamente liberisti (USA e in parte UK), perché in tali casi la crisi ha una durata inferiore e non si può effettivamente parlare di contrazioni durature del credito.

La Banca Centrale Europea come ha reagito?
La Bce ha effettuato due LTRO (Long Term Refinancing Operation), uno a dicembre 2011 per circa 489 mld e uno a febbraio 2012 per 529 mld, dove ha prestato complessivamente 1018 mld alle banche europee ad un tasso del 1%, a fronte di una garanzia ("collaterale") costituita da titoli di Stato posseduti dalle banche.

E' servito a dare un po' di tregua alle banche?
Sì, in questo modo le banche dei paesi più deboli hanno ricevuto un prestito alternativo rispetto al normale ricorso al mercato, un ricorso al mercato che nel loro caso era ed è molto costoso.

E' servito a ridare impulso ai prestiti?
No, per il semplice fatto che buttare mille miliardi sul mercato finanziario europeo non implica in automatico che tutti abbiano più liquidità a disposizione.
Infatti le banche, essendo perfettamente a conoscenza della gravità della crisi, hanno investito tali fondi in operazioni generalmente non rischiose (Titoli di Stato), così da lucrare sulla differenza di rendimento (se un BTP mi dà il 4% e io devo restituire l'1% alla BCE, guadagnerò il 3%) e compensare le enormi perdite dovute al deterioramento/difficoltà di pagamento dei prestiti fatti a famiglie e imprese.

L'Italia come sta dal punto di vista bancario?
Fortunatamente la crisi finanziaria non ha particolarmente coinvolto le nostre istituzioni finanziarie, d'altro canto la debolezza della nostra ripresa economica ha pregiudicato molti dei prestiti in corso e di conseguenza ha indebolito i principali istituti (costringendoli a rilevare ingenti perdite e a cercare nuovi capitali), senza contare gli alti tassi di interesse pagati dalle banche stesse per prendere a prestito denaro sul mercato.
Attualmente i crediti in sofferenza sono sui 120 mld (64 netti se consideriamo solo la differenza tra quelli svalutati e quelli non svalutati), per quanto riguarda le banche italiane, crediti che hanno richiesto rettifiche di valore per oltre 21 mld (quindi hanno abbassato o mandato in negativo l'utile della maggior parte delle grandi banche).

Se ricominciassero a prestare soldi cosa succederebbe?
Dovrebbero prestarli a tassi molto alti, come sostanzialmente avviene adesso, così da avere almeno la sicurezza di godere di interessi sicuri fino al rimborso (sempre che sia rimborsati).
Inoltre se molti dei prestiti già concessi non vengono ripagati o diventano inaffidabili, la banca è costretta a rilevarlo e a subirne le relative perdite (anche se il cliente non è ancora fallito), un fatto questo che andrebbe ad intaccare i coefficienti minimi stabiliti dall'Accordo Basilea 2, costringendo le banche a cercare nuovi soci che integrino il capitale (cosa che hanno comunque dovuto fare).

Perché i prestiti potenzialmente non restituibili contano?
Perché anche se non è detto che il cliente smetta di pagare o abbia problemi duraturi, le regole contabili obbligano tutti (non solo le banche) a seguire un principio di prudenza basato sulle concrete probabilità che il prestito sia ripagato oppure no (se di solito le imprese piemontesi ripagano l'80% dei prestiti, Intesa San Paolo ipotizzerà che il 20% non venga ripagato e quindi andrà ad inserirlo tra i costi di esercizio, di conseguenza questo ridurrà l'utile finale).

La politica c'entra con le banche da noi?
La politica controlla indirettamente molte banche (tra cui Unicredit, Intesa e MPS) attraverso le fondazioni bancarie, determinando chiaramente una certa inefficienza per via di nomine e operazioni che magari hanno finalità esclusivamente politiche e non perseguono l'interesse della banca, come normalmente avviene.
Molti criticano l'attuale sistema (soprattutto dopo lo scandalo MPS), che è una specie di compromesso attuato nel 1992 per non separarsi completamente dall'influenza politica in tale ambito, ma non mi sembra che i risultati delle banche considerate indipendenti (come le altri grandi banche europee o americane) siano tanto più auspicabili: le banche americane e inglesi (sicuramente le meno contaminate da influenze politiche) hanno creato e alimentato una enorme crisi finanziaria, mentre le maggiori banche europee o hanno seguito l'esempio (per esempio Deutsche Bank si è buttata a capofitto nel ramo speculativo e dei derivati) oppure si sono avventurate nel settore immobiliare, altrettanto speculativo, creando bolle che hanno devastato le rispettive economie.
Sinceramente non condivido tutto questo entusiasmo per una indipendenza assoluta delle istituzioni finanziarie dalla politica (o più semplicemente dal controllo pubblico).

Perché le banche sono sempre tutelate e salvate in caso di problemi?
Perché un sistema capitalistico (che sia l'Italia o gli USA) non può sopravvivere senza le banche (quanto meno le banche commerciali, non quelle di investimento), per cui o lo Stato gestisce e controlla le banche occupandosi direttamente del credito, altrimenti ogni volta che le banche saranno in difficoltà anche l'economia reale ne risentirà.

Le banche ci guadagnano sempre?
Sì, perché sono gli intermediari che permettono la raccolta e distribuzione del denaro, per cui se non ci guadagnassero allora vorrebbe dire che il settore finanziario ha enormi problemi (e noi saremmo rovinati) o viceversa che l'economia reale è completamente a pezzi.

Come si può cambiare questo sistema?
All'interno del quadro normativo europeo di stampo liberista non è prevista un'alternativa, e meno che mai si lascia spazio all'intervento dello Stato nel settore bancario-creditizio, per cui lo Stato ha le mani legate dal punto di vista giuridico (fino al momento del quasi-fallimento della banca), in più dal punto di vista del bilancio lo Stato non ha abbastanza soldi per rimediare da solo alla debolezza delle banche;

Chi può intervenire allora?
A questo punto solo la BCE (come ha già fatto) può concedere finanziamenti a basso prezzo alle banche, ma contemporaneamente la UE deve mettere a disposizione molto risorse (vincolate a questo scopo o meno, e comunque maggiori di quelle stanziate) così da assicurare una ripresa effettiva nei paesi più disagiati attraverso una grossa spesa pubblica (in questo caso a livello europeo).

Nel frattempo?
Meanwhile aspettiamo che i paesi emergenti ricomincino a importare.
Contemporaneamente avverrà quello che è successo in USA, ma in modo più lento: ci sarà un riequilibrio automatico dell'economia, cioè in parole povere una ristrutturazione industriale che porterà al fallimento delle imprese che non riusciranno a trovare mercati di sbocco.
Tanto nessuno ha i soldi per intervenire in funzione di contrasto a tale scenario negativo, per cui speriamo che quanti più imprenditori possibili riescano a riconvertire la propria produzione al meglio.

Se avessimo la nostra Banca Centrale cosa potremmo fare?
Potremmo garantire linee di credito speciali per imprese e famiglie, sostanzialmente lasciando fallire le banche che hanno effettuato scelte azzardate (nel caso italiano c'è solo MPS) oppure potremmo nazionalizzarle temporaneamente solo per garantire i depositi dei cittadini (che sono comunque già garantiti fino a 100mila euro).

Non potrebbe farlo la BCE o la UE?
E' assolutamente fuori dal vocabolario liberista il verbo "nazionalizzare", meglio lasciare che ci pensi lo Stato (se ha i soldi) oppure che intervenga l' ELA (liquidità di emergenza) contestualmente alla ricapitalizzazione a spese della nazione in questione. That's better!






About: Cassa Depositi e Prestiti

Ogni tanto, quando si parla di grosse somme di denaro pubblico oppure riguardo al tema investimenti pubblici, spunta fuori il nome della CDP senza che nessuno abbia ben chiaro cosa faccia e a che serva di preciso.
Visto che si tratta di un pilastro importante che movimenta parecchi soldi, è meglio capirci qualcosa in più.

Storia
Nasce nel 1850 con la funzione di ricevere depositi quale luogo di fede pubblica (una specie di cassetta di sicurezza pubblica);
Dal 1857 inizia la sua attività di prestiti agli Enti locali (d'ora in poi EL);
Nel 1875 nascono i Libretti di risparmio postale, che servono a finanziare gli investimenti in opere pubbliche e la gestione dei debiti pregressi degli EL (sempre attraverso CDP);
Nel 1924 vengono emessi i primi Buoni Fruttiferi Postali (d'ora in poi BFP), sempre con la finalità di raccolta pubblica;
Nel 1983 viene riformata: diventa un' amministrazione dello Stato con propria personalità giuridica e di autonomia ordinamentale, organizzativa e di bilancio (in sostanza è un po' più autonoma);
Nel 2003 viene trasformata in Spa (per motivi correlati con la trasparenza e il tema dei conti pubblici);
Dal 2009 l'operatività è estesa anche a progetti di interesse pubblico, di sostegno all'export, social housing (prima casa a chi ha bisogno), supporto PMI;
Nel 2011 viene ulteriormente ampliato l'orizzonte di azione, con la nascita del Fondo Strategico Italiano che può assumere partecipazioni in società di rilevante interesse nazionale in termini di strategicità del settore, di livelli occupazionali e di entità del fatturato.

In sostanza si tratta di una Spa (quindi come se fosse una qualunque azienda privata) di proprietà pubblica, controllata al 70% dal Ministero del Tesoro e al 30% da 63 fondazioni bancarie

Finanziamenti
La CDP riceve la fonte principale di sostegno dalla gestione del Risparmio postale (tramite strumenti quali i BFP e i Libretti di risparmio), che nel 2012 ha portato in cassa 233,6 mld più altri 16,4 di altri tipi, di cui 8 mld (quota massima di emissioni) derivanti dal programma EMTN, che consiste in obbligazioni emesse per raccogliere denaro da destinare al finanziamento di investimenti infrastrutturali di soggetti privati operanti nel settore dei servizi pubblici.

Impieghi
Nel 2012 sono stati mobilitate risorse per 22,2 mld, prevalentemente a favore di imprese nell'ambito del sostegno all'economia (6,3 mld), concessione di finanziamenti agli Enti pubblici (3,3 mld) e finanziamenti a progetti PPP (partenariato pubblico-privato) nel campo delle infrastrutture (2,7 mld).

Partecipazioni
Il perimetro di controllo e collegamento della CDP è molto ampio, si va da società quotate e conosciute (come Eni) fino a fondi di investimento di vario tipo.
La maggior parte delle partecipazioni elencate rientra o nella logica della rilevanza (per cui l'intervento totale o parziale del pubblico serve ad evitare possibili acquisizioni estere nel caso di imprese rilevanti in termini economici-strategici) oppure rientrano all'interno dell'applicazione effettiva dei compiti assegnati (art.5 c7) alla CDP (per esempio attraverso i vari fondi di investimenti e alcune aziende).

Attualità
La CDP rientrerebbe nell'ambito delle Amministrazioni Pubbliche (d'ora in poi AAPP), però quando nel 2003 sono entrate (o si sono "fatte" entrare) nel capitale le fondazioni, questo ha permesso all'Ente di fuoriuscire dal perimetro pubblico (così i debiti della CDP non vengono considerati ai fini del calcolo del deficit e debito pubblico), risultando così meno oneroso per lo Stato continuare a sostenere l'attività della CDP nonostante i rigidi vincoli europei.
Il fatto è che è stato avviato un processo volto a ridurre la partecipazione e i diritti attribuiti inizialmente alle fondazioni, così che da quest'anno esse posseggano al massimo il 20% del capitale e quote "normali" di partecipazioni (a differenza delle precedenti che attribuivano diritti speciali).
In tale contesto, la rabbia delle fondazioni deriva più che altro dal fatto che questo "scambio" determina un onere notevole a carico delle fondazioni (sia che accettino sia che recedano), per cui in periodi come questo dove le risorse a disposizione delle fondazioni (e delle banche) sono limitate, questo ha destato molte critiche.
Bisogna però ricordare che le fondazioni sono state ben remunerate per il fatto di essersi scomodate a sostenere questa iniziativa pubblico-privata, infatti lo Statuto attribuiva alle azioni privilegiate che loro possedevano un rendimento del 3% al netto dell'inflazione (in caso di risultato positivo, ovviamente), e in caso di risultato negativo se non fossero state adeguatamente remunerate se ne sarebbe tenuto conto nei cinque esercizi successivi (mentre col nuovo Statuto questo non è più previsto). 
Un trattamento indubbiamente vantaggioso.

Questa è la situazione al 11/03/2013