giovedì 26 dicembre 2013

Web Tax

Il 20 dicembre è stata approvata la famosa Legge di Stabilità, che tra le tante norme conteneva al suo interno un provvedimento che riguarda la tassazione di spazi pubblicitari digitali, poi definito "web tax".
Questa norma è sorta in seguito ad un precedente dibattito - tuttora in corso - sullo scarso ammontare di imposte pagate da alcune famose società (Google in primis) e ha provocato molte critiche, sia sul piano economico che giuridico.

Vediamone il funzionamento.

La norma approvata (art.1 c33) prevede due cose:
  1. che le imprese che volessero ACQUISTARE servizi di pubblicità e link sponsorizzati online visualizzabili sul territorio italiano, - o almeno questa è l'interpretazione prevalente dello spirito della norma (non è sufficiente essere solo un'azienda del e-commerce) - anche attraverso centri ed operatori terzi, possono acquistarli SOLO da soggetti che abbiano una partita IVA in Italia;
  2. che tali imprese acquirenti abbiano OBBLIGATORIAMENTE una partita IVA italiana.

Può sembrare che questi due obblighi siano poco rilevanti, in realtà questo comma impone un nuovo e pesante adempimento burocratico-fiscale per tutti coloro che operano nel settore pubblicitario digitale nazionale: l'apertura di partita IVA in Italia. Quest'obbligo costringerebbe le aziende ad assoggettare a tassazione qui in Italia i ricavi derivanti dal settore advertising, nonché sostenere tutti i nuovi costi derivanti dall'apertura e dal mantenimento di partita IVA.

Oltre a queste critiche più "pratiche", molti si chiedono quanto gettito fiscale possa veramente garantire questa norma, prospettando risultati scadenti per le finanze pubbliche (poche decine di milioni) e nel contempo un fuggi fuggi generale dei grandi colossi con una notevole penalizzazione per il settore, soprattutto per i "pesci piccoli".

Se pensavate che il problema fosse solo economico-fiscale vi sbagliavate, visto che questo provvedimento non è giuridicamente ben visto dall'UE (anche per via di un difetto di notifica alla stessa, notifica che in questo caso andava inviata poiché riguardava la circolazione dei servizi intracomunitaria), che ha subito evidenziato una possibile (e probabile) violazione delle libertà fondamentali garantite dai principi europei.

E' evidente un po' a tutti che questa tassa è stata mal elaborata fiscalmente (basti pensare che è monca di alcuni presupposti importanti, quali le eventuali sanzioni in caso di violazione di legge) e giuridicamente (parlavamo pocanzi delle magagne giuridiche pronte a scoppiare). 
Sono tutte critiche sensate, ma incentrate sulla sola norma in questione, senza alcun riferimento al contesto.
Non sto ovviamente difendendo questo improbabile provvedimento, però il motivo per cui è stata introdotto, che per una volta non è di gettito fiscale, è stato affrontato sì ma è passato quasi inosservato. 
Facciamo un passo indietro e analizziamolo

Qual è il problema a monte? 
La "giusta" tassazione dei ricavi prodotti dai colossi del digitale, quali Google, Amazon, Facebook e Apple. 
Infatti questi grandi gruppi fatturano diversi milioni grazie ai ricavi derivanti dai loro servizi, ma tramite un abile "gioco di squadra" tra le varie società controllate riescono a farsi tassare tali ricavi solo dove vogliono loro (generalmente in paesi quali Lussemburgo e Irlanda).

Come? 
Attraverso il profit shifting, ossia adottando una strategia tributaria mirata a "spostare" i ricavi/redditi prodotti, ma ancora da tassare, nei paesi con un regime fiscale più vantaggioso. Il tutto legalmente.

Esempi noti
La quasi totalità dei ricavi di Google è tassata in Irlanda; per Amazon è il Lussemburgo la meta fiscale di riferimento; per Facebook l'Irlanda; Apple (na bomba come al solito...) li sfrutta un po' tutti, tramite una specie di triangolazione Irlanda-Lussemburgo-Olanda.

E' evidente che un comportamento del genere è un insulto ai principi di equità e di capacità contributiva, statuiti dalla Costituzione, e pertanto andava prima o poi affrontato. Tuttavia dobbiamo ricordare che si tratta di un terreno delicato (imposizione fiscale "diretta") e soprattutto sovranazionale (coinvolge minimo due paesi), due motivazioni sufficienti per capire che i singoli Stati possono fare ben poco, per cui è l'Europa che deve darsi una mossa. Fra l'altro l'Italia non è il primo paese a lamentarsi di questa spudorata elusione fiscale da parte di questi grandi gruppi, e già in UK e Francia ci sono stati i primi scontri tra l'Amministrazione fiscale e tali multinazionali.
Al riguardo la Commissione europea ha incaricato un team tecnico di elaborare un modello di tassazione digitale univoca per tutta l'Unione, e lo stesso commissario alla fiscalità Algiridas Semeta ha di recente proposto di modificare le normative societarie UE per limitare lo spostamento di redditi da tassare da una controllata all'altra. 
Insomma, il problema è stato affrontato ma i tempi, essendo tempi "comunitari", saranno come al solito lunghi...


(*) Aggiornamento: l'ultimo decreto-legge pubblicato nel 2013 prevede che la c.d. web tax entri in vigore il 1 luglio 2014







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