giovedì 10 gennaio 2013

Euro o non Euro? PARTE I

Dopo la persistente recessione (e i vari problemi di bilancio pubblico) e dopo le varie "uscite" di Berlusconi e di alcuni membri del M5S, è decisamente ora di capire qualcosa in più sull'utilità/necessità di valutare l'ipotesi di uscita dall'Euro.
L'argomento in questione è estremamente tecnico e richiederebbe moltissimi riferimenti a rapporti e ricerche, che anno dopo anno cercano in qualche modo di dare un senso ad un contesto economico europeo completamente "sballato" e divergente al suo interno, per cui l'ideale è procedere senza complicarsi la vita con troppi paroloni e in modo più semplificato possibile.

Alcune premesse di base:
  1. Il tasso di cambio è il prezzo di una valuta espresso nei termini di un'altra moneta, di solito rappresentato "certo per incerto", cioè il prezzo in valuta estera di una unità di valuta nazionale (per es. il cambio EUR/USD: quanti dollari per comprare 1 euro?). Questo è il tasso di cambio nominale e se non è indicato diversamente (reale, effettivo o altro) ci si riferisce implicitamente a questo concetto.

  2. Il fondamento vero e proprio dell'ipotesi di un'Europa unita deriva dal Rapporto Werner, ma l'idea economica dell'Euro si riscontra nella Teoria delle Aree Valutarie Ottimali (Mundell 1961), che in sostanza sostiene che se due o più paesi volessero adottare cambi fissi (o pressoché fissi) tra le loro monete, magari perché commerciano molto tra loro, per avere un buon grado di successo devono avere una completa (o quasi) "mobilità dei fattori produttivi"; questa espressione indica che lavoro e capitali siano liberi di spostarsi praticamente senza ostacoli/limiti: per esempio se io sono un operaio, e oggi la mia fabbrica chiude, posso ipoteticamente cercare e trovare lavoro in Germania senza particolari impedimenti o difficoltà nella gestione della mia posizione lavorativa (per es. per i contributi), delle formalità burocratiche (permessi vari) e nel giro di pochissimi giorni; allo stesso modo se io domani ritengo che il mio capitale di centomila euro sarebbe più produttivo investirlo in obbligazioni della Siemens piuttosto che di Unicredit, allora dovrei poter completare l'operazione in un lasso di tempo brevissimo, quantomeno infragiornaliero.

  3. Come ho anticipato, questa teoria sta alla base dell'Euro ma non descrive l'attuale condizione di quest'ultimo, che è in realtà una unione monetaria vera e propria.
    Una precisazione molto importante: un' Area Valutaria Ottimale E' DIVERSA da un' unione monetaria; nella prima ognuno tiene la sua moneta mentre nella seconda la moneta è unica (vedi Euro). Lo stesso Mundell, nel 1997, ha precisato tale distinzione: per cui un'AVO si crea quando due o più paesi fissano il tasso di cambio in modo fisso o con una stretta banda di oscillazione, mantenendo ognuno la propria Banca Centrale (pur con qualche restrizione nella politica monetaria) e potendo uscirne in qualunque momento; un' unione monetaria richiede invece una stessa moneta, stessa Banca Centrale e possibilmente una contestuale unione politica.
    Detto questo non dimentichiamoci il pre-requisito FONDAMENTALE alla base di entrambi i concetti stessi, cioè l'ampia mobilità dei fattori produttivi.

  4. L'Euro NON E' una Unione Monetaria (nel senso che lo è formalmente, ma non ha i requisiti per definirsi tale), né i precedenti sistemi di cambio simili furono Aree Valutarie Ottimali (SME per esempio). Questo è un dato di fatto riscontrabile nella realtà, infatti l'Euro è costituito da paesi con enormi squilibri interni e reciproci, che al primo shock esterno (vedasi crisi finanziaria americana) sono stati definitivamente portati a galla; in un' unione monetaria non dovrebbero esistere marcate differenze tra i singoli Stati (e men che meno all'interno degli Stati stessi, come in Italia), di modo che al primo shock l'economia dell'unione si riequilibri pressoché automaticamente.
    Questo concetto è pienamente accettato e sottolineato perfino dagli organi esecutivi e legislativi europei, mentre ciò che è veramente motivo di discussione sono i rimedi da porre in atto in relazione a questo problema: alcuni chiedono maggiore integrazione politica e fiscale, altri l'uscita definitiva.
    Fra l'altro queste cose erano state già anticipate dal Premio Nobel Kaldor nel 1971.

  5. Immaginiamo due territori che hanno tasse diverse, contratti di lavoro diversi, spesa pubblica diversa e così via (come praticamente ogni paese del mondo), se da un giorno all'altro usano la stessa moneta senza apportare alcun cambiamento strutturale uniforme, come può una moneta unica cambiare qualcosa (ricordiamoci che si tratta solo di uno strumento di pagamento)?
    L'unica risposta (irrazionale) che viene da dare è che le crisi e gli squilibri che derivano da tale applicazione potrebbero dare un carattere di urgenza alle riforme tanto "agognate", ma non ha comunque senso invertire i due processi! Vuol dire farsi male da soli! Stiamo parlando di processi complicati che non riguardano solo il valore della moneta rispetto al dollaro e così via.
    Del resto basta vedere come la politica monetaria unica (unica perché gestita da una sola banca, la BCE) non abbia risolto gli squilibri tra gli Stati, pur avendo agito in senso tutto sommato espansivo (soprattutto sotto la presidenza Draghi) e quindi favorevole agli Stati. Questo per ricordare che la moneta è solo uno strumento nominale, non può causare cambiamenti strutturali solo perché è in dotazione a tanti paesi ed è gestita da una sola Banca Centrale.

Una volta compreso questo, le premesse di base ci sono tutte.
Abbiamo inoltre capito che il tema di scontro principale è "più Euro" o "meno Euro". 

Cosa fare?
La frase "attuare riforme strutturali", nonostante normalmente sia usata a caso senza avere la minima idea di come agire (non tanto di dove agire), in questo caso ci è utile; infatti se vogliamo/crediamo che sia necessario continuare sulla strada dell'unione monetaria (effettiva), l'unica soluzione è l'emanazione di Direttive e Regolamenti europei (validi solo verso gli stati dell'Unione Economica e Monetaria europea, d'ora in poi EMU) che provvedano ad uniformare il mercato del lavoro, la previdenza, la TASSAZIONE, il sistema finanziario, il sistema creditizio-bancario, il sistema giuridico, la burocrazia (soprattutto per quanto riguarda uniformità dei tempi), l'istruzione e le POLITICHE FISCALI (cioè come viene speso il bilancio pubblico) che saranno accentrate e gestite direttamente dall'Unione oppure solo uniformate. 
Probabilmente ne ho dimenticato qualcuno, comunque alcuni esempi chiariranno tale necessità di uniformità: se le tasse sulle imprese in Irlanda sono del 12,5% è ovvio che molte imprese sposteranno lì la sede sociale, determinando minori entrate fiscali; se lo Stato dà notevoli incentivi a chi apre un'attività spendendo una % notevole del bilancio pubblico, mentre in altri paesi non succede, allora ci potrà essere uno spostamento continuo negli anni verso tale nazione e costante impegno di spesa maggiore che in altri paesi.
In sostanza in un' Unione monetaria le regioni e gli Stati stessi non sono in concorrenza totale tra loro, ma cooperano per garantire un livello standard su tutto il territorio, attuando una "competizione" più blanda su altri aspetti (per esempio sulla maggiore qualità o formazione tra le università più prestigiose o sulla specializzazione in determinati segmenti lavorativi ecc).
In realtà altri autori hanno ipotizzato la necessità di ulteriori similitudini in campo economico per poter prendere in considerazione l'idea di unirsi (tra cui integrazione fiscale, sopra citato), però, a parte una in particolare (diversificazione produttiva), possiamo immaginare che il processo di convergenza-uniformità nelle materie sopra indicate sia già un più che sufficiente presupposto.

Il problema è che un processo del genere richiede qualche anno per avere risultati di convergenza robusta, inoltre cosa succederebbe se per qualche motivo ci fossero altre crisi di vasta portata? Sarebbe giusto chiedere ai paesi più deboli come Grecia, Spagna, Portogallo e Italia ulteriori sforzi e anni di recessione nell'intento di preservare a tutti i costi l'Euro? Ma soprattutto è stato ed è giusto chiederlo tuttora, dopo due anni dallo scoppio del panico riguardo ai debiti pubblici dei PIIGS? Infine sarebbe pensabile attuare un processo così complicato, che richiede continue e attente riforme di grande tecnicismo, se ad oggi non ci si riesce ad accordare nemmeno su Eurobond e Unione Bancaria?

Dall'altra parte hai la prospettiva di una uscita, non contemplata nei Trattati istitutivi, che spaventa molti cittadini e che richiede un forte consenso politico sull'argomento (che oggi non c'è), per di più non essendo stato votata l'adesione all'Euro non è stato fatto un approfondimento particolare sull'argomento, ma ci si è semplicemente affidati al consenso dominante che diceva che l'Euro è buono perché ci protegge dall'inflazione, perché ha più valore della lira e favorisce gli scambi intra-europei (argomenti abbastanza scialbi).
Inoltre, una volta usciti noi, chi obbligherebbe Spagna, Grecia e Portogallo a restare? (E del resto perché dovrebbero).

Purtroppo, date le circostanze, l'unica non-soluzione sarebbe un referendum consultivo che dia modo al Governo di capire qual'è l'opinione maggioritaria sull'argomento. E' evidente che questo referendum deve avvenire previa una campagna di grande portata (molti mesi prima del voto), dove si dibatta la questione tra sostenitori e contrari, dando  le basi economiche tali da capirci qualcosa, per quanto possibile.
Ovviamente un argomento così complicato e che non ha neanche una spiegazione univoca, non potrà che rimanere comunque oscuro e incompreso, per cui prevarrà il "voto di pancia" di chi sarà preoccupato della svalutazione, del default o di qualunque altro spauracchio.

E' normale che non ci sia né la voglia, né il tempo, né le basi per discuterne.

Molto probabilmente si andrà avanti con la situazione attuale, con miglioramenti in termini di maggiore uniformità a poco a poco, fino alla prossima crisi o recessione (Luca Ricolfi a metà 2012 ne ipotizzava una all'incirca nel 2017, ma senza dover fare particolari previsioni si può ipotizzare semplicemente nella prossima fase negativa del ciclo economico), in cui sarà dura convincere nuovamente qualcuno della necessità di tagliare e fare sacrifici.








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