domenica 17 febbraio 2013

In pensione quando mi pare

I problemi del sistema pensionistico sono spesso evidenziati e in seguito alla riforma Fornero, che ha lasciato tutti scontenti, sarebbe il caso di capire cosa non va e come migliorarlo, quantomeno in termini generali.

Una semplice dubbio che mi sono posto:
sebbene la speranza di vita sia chiaramente aumentata nei paesi sviluppati (e sia in costante aumento) ha senso far lavorare qualcuno fino a 68-69 anni o addirittura oltre?

Da un punto di vista economico ha perfettamente senso, perché se a 70 anni hai davanti a te una probabilità di vita di altri vent'anni, trattandosi di un periodo lungo dovresti contribuire maggiormente (cioè lavorare di più per compensare il futuro "bengodi").
Dal punto di vista del bilancio pubblico ha ancora più senso richiedere uno sforzo di questo tipo, visto che altrimenti le prestazioni pensionistiche pagate dallo Stato saranno in costante crescita (244 mld nel 2011 solo le pensioni; 305 mld tutte le prestazioni pensionistiche e sociali), a fronte invece di contributi versati (212 mld di contributi effettivi, più altri 4 mld di contributi figurativi, nel 2011) che garantiscono la copertura finanziaria solo di un certo periodo.

Il problema in questo caso è quasi socio-sanitario, perché è improbabile che oltre i 65 anni tutte le persone mantengano la stessa lucidità e capacità di svolgimento del proprio lavoro, basti pensare alla differenza (in media) tra un 66enne avvocato e un 66enne magazziniere. 
E' abbastanza evidente che la soluzione migliore sarebbe lasciare una scelta: se ce la fai o hai bisogno di soldi oppure ami il tuo lavoro, superata una certa età (66 anni per esempio) puoi liberamente continuare avendo la possibilità di ritirarti in qualunque momento successivo a tale età; viceversa vai in pensione.
Il solito dilemma è l'ingente costo per il bilancio pubblico, per di più in continua crescita nel tempo.
Fra l'altro non dobbiamo pensare che questo sia un problema solo italiano, perché in questo stesso momento paesi come Francia (riforma attuata da Sarkozy) e Germania (ancora da attuare) stanno avendo gli stessi dibattiti sullo stesso "scivoloso" tema dell'età di pensionamento.
Semplicemente noi italiani abbiamo voluto complicarci la vita, come al solito, per cui fino ai primi anni '90 abbiamo avuto un sistema pensionistico mooolto generoso con pensionati, pre-pensionamenti e baby-pensionati, il quale ha determinato un incremento di spesa più anormale degli altri paesi.
E nei momenti di crisi, "lacune" di questo tipo vengono fuori.

Sinceramente, senza particolari riferimenti empirici o simili ma solo basandomi sul senso comune, non ritengo pensabile un adeguamento dell'età pensionabile alla speranza di vita o quantomeno non in senso stretto. Bisogna ammettere che dopo questo primo shock della riforma Fornero nessuno ha voluto ipotizzare lo scenario del pensionamento a settantanni o poco più, ma questo scenario è in realtà di per sé evidente: infatti è ovvio che se il requisito è di 66 anni e 37 di contributi, per esempio, si presume che tale lavoratore abbia praticamente sempre lavorato dal momento in cui è entrato nel mercato del lavoro. Un fatto poco probabile se andiamo a vedere le fasi positive e negative che ha sofferto la nostra economia, e poco coerente con i molteplici tipi diversi di contratto di lavoro e con tutto il mercato del lavoro in generale (quello attuale almeno).
Perciò possiamo tranquillamente dire che tale ipotesi, nonché gli stessi requisiti di pensionamento, sono del tutto incompatibili con uno scenario lavorativo mondiale decisamente "liberista" ossia non più attaccato all'idea del posto fisso quanto piuttosto all'idea di mobilità e flessibilità, per il semplice fatto che una prospettiva di facilità di entrata e uscita dal mercato del lavoro tale da non posporre/inficiare il raggiungimento dell'età pensionabile (più contributi) vale solo per figure molto qualificate e solo in specifici settori (e il magazziniere di prima 'ndo va?).
Neanche i laureati si sottraggono a questa logica settoriale, infatti i miei "colleghi" lo sanno molto bene.
Per completare il discorso, anche ipotizzando una relativamente abbondante richiesta di lavoro da parte delle imprese in senso lato, ci si dimentica che esistono i momenti di stagnazione o crisi (guarda caso come il nostro attuale) che influiscono negativamente sulla ricerca di lavoro, e infine ci si dimentica che esiste la "disoccupazione frizionale", ossia quel periodo di tempo (anche breve, ma presente) tra un lavoro e l'altro (cioè il tempo di trovare un annuncio e organizzare/partecipare a colloqui dal primo giorno successivo al licenziamento/dimissioni).

Ormai il contesto socio-economico mondiale è improntato su assetti liberisti in ambito lavorativo, per cui per dare una soluzione realistica al problema del pensionamento, senza chiedere stravolgimenti del sistema in sé e del mercato del lavoro, e dovendo (il sistema pensionistico) adeguarsi al sistema lavorativo (che è poi quello che più incide sulla Previdenza stessa) conviene esaminare le opzioni più fattibili...

...E l'unica possibilità effettiva è purtroppo la PREVIDENZA COMPLEMENTARE/INTEGRATIVA.

Infatti l'unico modo per coniugare un limite minimo lavorativo tutto sommato accettabile (66-67 anni) con una pensione più o meno decente, senza mandare in rovina lo Stato, è obbligare i lavoratori ad iscriversi (ad inizio carriera) in un fondo di previdenza complementare, dove sarà versato il loro TFR, i contributi (loro più quelli del datore di lavoro/committente) ed eventualmente altri contributi volontari.
Perché dico "purtroppo"?
Per il semplice fatto che in tal modo ci tocca affidare i nostri risparmi ai rendimenti determinati su mercati finanziari psicolabili (soprattutto se il Fondo Pensione investe in azioni) che non solo potrebbero non garantire interessi/rendimenti superiori all'inflazione* (come invece fa lo Stato, in parte), ma che anzi potrebbero determinare differenze rilevanti a seconda del periodo o dell'anno in cui si va in pensione.
Inoltre questo segna la perdita non trascurabile di una delle più importanti funzioni del Welfare State (di nuovo con grande gioia dei liberisti), il sistema pensionistico, il quale veniva gestito dallo Stato proprio in quanto argomento complesso e delicato: infatti c'è un'evidente "asimmetria informativa" dei singoli lavoratori rispetto al loro futuro e su come gestire i propri guadagni in relazione alle loro aspettative e stili di vita, una asimmetria tale da richiedere che fosse lo Stato a decidere in che misura, per quanto tempo, con che caratteristiche e aliquote contribuire e soprattutto come gestire tali risparmi e COME GARANTIRE CHE TALI CONTRIBUTI FOSSERO PRESERVATI DALLA PERDITA DI POTERE D'ACQUISTO E DA EVENTI ECONOMICI NEGATIVI!

[*Se il rendimento del 2012 del Fondo Pensione è del 2% al netto dei costi amministrativi, ma l'inflazione 2012 è stata del 3%, allora in realtà ho perso l'1% del potere d'acquisto dei "miei soldi" in quell'anno]

Diciamo che si tratta di un COMPROMESSO: IO risparmio al bilancio pubblico la spesa per la gestione, accertamento, riscossione ed eventuale contenzioso, misurazione, adeguamento all'inflazione ed erogazione della mia pensione (sperando che tali soldi risparmiati siano investiti per favorire lo sviluppo, altrimenti forconi), mentre mi accollo una parte del rischio (prima garantito dallo Stato) affidandomi ai mercati finanziari (in termini di rendimenti, inflazione, aspettative ed eventuali perdite) e tutto ciò che ne consegue in termini di prestazione pensionistica, quindi anche la possibilità (molto probabile) che se avessi lasciato contributi e TFR all'INPS forse avrei avuto una pensione più alta, ma avendo però la possibilità di decidere quando andare in pensione in quanto sarò sempre al corrente dell'ammontare della mia pensione futura di anno in anno, perciò se a 65 anni tra contributi obbligatori e volontari sono riuscito a raggiungere una pensione mensile che ritengo soddisfacente (e se mi sono rotto di lavorare) ho la possibilità di uscire tranquillamente dal mercato del lavoro. Quantomeno c'è anche il vantaggio fiscale, che in un certo senso ti "ringrazia" per la scelta fatta garantendoti minore tassazione sui rendimenti del Fondo Pensione e sulla pensione stessa quando sarà erogata.

Per essere ancora più diplomatici si può mantenere il sistema attuale che ti garantisce la possibilità di passare alla previdenza complementare in qualunque momento, con l'unica modifica che per usufruire della pensione accumulata tramite il Fondo Pensione non sono necessari i requisiti obbligatori (età, contributi ecc...) previsti per i lavoratori del mio settore/categoria che invece non si sono affidati alla previdenza complementare (com'è invece attualmente).
Cioè io faccio sto sforzo sì, però decido io quando andarmene (al massimo si può richiedere che il limite minimo per uscire sia il fatto di poter usufruire di una pensione di almeno 800-900 euro netti).

Una terza alternativa che viene spesso sbandierata è la possibilità di restare in ambito pubblico (INPS per esempio), però integrando la bassa pensione con contribuzioni volontari effettuate con parte dei soldi dello stipendio (come integrazione nell'ambito della previdenza complementare, oppure come investimento in un'ottica di futuri risparmi per la pensione come può essere un investimento in BTP), ma è evidente che solo su stipendi rilevanti si può pensare di riuscire addirittura a risparmiare e a contribuire volontariamente con cifre quantomeno non esigue (sennò non conviene).
In questo caso si fa riferimento al tasso di sostituzione, cioè al rapporto tra l'ultimo stipendio e la prima pensione (generalmente inferiore), che determina un gap che potrebbe essere in tal modo colmato.









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